lunedì 31 dicembre 2018

2018 e tante personcine per bene

Qualche immagine per salutare questo 2018, un bel 2018.
Un anno contraddistinto dalle persone. Una bella rete di presenze e di luoghi che mi fanno sentire a casa. Sicuramente un grande abbraccio va alle persone con le quali condivido strade e servizi che mi dicono tanto.


Devo ringraziare le Chiare, per il sostegno e la voglia di mettersi al servizio della Città, gli amici che hanno voglia di esserci e di contare: costruire con loro una campagna elettorale e immaginare insieme una Città da amare, è e sarà bellissimo. Vedere Vicenza da questo punto di vista è un’avventura esaltante, e non sono da solo, nell'usare questo cannocchiale.
Una dedica speciale la faccio al consigliere Pupillo, compagno di quotidiane telefonate e collega di tante riunioni. Per un “novizio” come me Sandro è una fonte di ispirazione, oltre che (possiamo dirlo) un grande amico. 
Un pensiero va alla mia famiglia, tutta.

Uno spazio importante lo occupano le persone del mondo dell’educazione e dell’istruzione. Il mio lavoro, girando per le scuole di Vicenza, mi permette di conoscere luoghi e persone appassionate, attente, quindi stili di insegnamento, “piccole maestre” che svolgono un lavoro prezioso. Lo scoutismo e gli amici, infine, con i quali percorrere le strade della nostra meravigliosa terra con ragazzi sempre diversi, il nostro futuro.



Chiudo con Venezia perché è la città da me più visitata, nel 2018, nel 2019, da sempre. Ogni visita, camminata, mostra, bacaro, porta qualcosa di nuovo. Corto dice: “Sto pensando che dovrei decidermi a partire. Ogni volta che vengo a Venezia mi impigrisco” – Provo lo stesso sentimento anche io, ogni volta. Per fortuna ci sono persone nuove e luoghi arcani da scoprire continuamente (ticket permettendo). 
Avanti 2019!

Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti. luoghi segreti; aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle calli, i veneziani se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie …


giovedì 1 novembre 2018

Autunno

Sono questi i giorni più belli per camminare le montagne alte dell'Altopiano da soli o con poca compagnia; i larici incominciano a prendere il colore dell'oro vecchio e le azzurre genziane sembrano amplificatori del sottosuolo che imprigionano il calore e la luce del sole.

Le prime piogge di fine settimana lavano i residui dell'estate e ogni foglia d'erba, ogni ramoscello ha la sua perla. I cervi, i caprioli, immobili dentro il bosco, godono della pioggia che li lava e li libera dai fastidi degli insetti alati. Anche per noi è bello e liberatorio andare con stivali e mantellina impermeabile tra la pioggia, vagabondare senza prefissare una meta e incontrare con reciproca sorpresa uno scoiattolo che ti fissa da un ramo, o gli occhi di un pettirosso immobile dentro un cespuglio di rose canine carico di bacche rosse.

I tuoi passi si confondono con il rumore delle gocce che cadono sugli alberi e poi nel sottobosco con rumore più forte; con questo tempo diventa più probabile avvicinare e sorprendere quegli animali che con l'uomo hanno poca dimestichezza o che per esperienza lo temono. 

Tante cose nel corso delle stagioni la natura può insegnare a chi osserva; ma è nell'autunno che il bosco si fa leggere con chiarezza: lo sviluppo delle crescite annuali degli alberi, la maturazione dei frutti e delle drupe nel sottobosco e, magari, le brutte tracce del passaggio degli uomini incivili. 
Tra i modi possibili di cacciare, questo d'autunno - con la pioggia e con un cane in luoghi che ben conosci, con un fucile che senti tua continuazione, e l'ora della stagione, e i ricordi che ti accompagnano - ti fa intensamente partecipare a un mondo che senti esclusivamente tuo, che ti aiuta a capire le stagioni della tua vita che nessuno mai potrà rubarti.

Con le piogge dell'autunno arrivava anche la noia della domenica pomeridiana; non si poteva giocare sulla strada e nemmeno sui prati, o lungo il torrente che diventava giallo e impetuoso. Non sempre, poi, si avevano quei cinquanta centesimi di lira per pagare l'ingresso al cinema parrocchiale dove davano i film di Tom Mix.

Lassù, dove ora ci sono spazio e silenzio e non turisti, non sciatori, non greggi; solo qualche cacciatore armato di cannocchiale e binocolo, arrivato camminando ancora prima dell'alba, che sta immobile ad osservare i camosci per studiarli, capire, considerare prima di decidere a chi deve indirizzare la sua mira. Con le prime nevicate di fine autunno i camosci lasciano i campi dell'amore per discendere verso i boschi sottostanti dove sarà più facile superare l'inverno.

Al mattino gli stagni degli abbeveratoi sono velati dal ghiaccio e nelle zone in ombra la brina giorno dopo giorno aumenta la sua consistenza. Uno sparo lontano ti farà ricordare che il tempo della caccia sta per finire [...] ti accorgi anche di altri suoni: un sommesso e flautato zufolare di ciuffolotti confidenti sugli apici del bosco, la voce di un pettirosso dentro un cespuglio di rosa canina, un corvo imperiale solitario che vola alto e richiama la compagna che era rimasta indietro, la corsa di un capriolo e un suono di campane che il bel tempo ti porta da ponente.
Così una dolce malinconia ti prende, la melanconia dell'autunno, e sotto un larice, all'asciutto, cerchi anche tu un luogo dove accucciarti per meditare delle stagioni della tua vita e sull'esistenza che corre via con i ricordi che diventano preghiera di ringraziamento per la vita che hai avuto e per i doni che la natura ti elargisce. Una mattina di dicembre vedrai il cielo uniformemente grigio, le montagne dietro le nuvole, i boschi più scuri e, da una castagna di legna, schizzar via lo scricciolo. 
Il suo campanellino d'argento ti dirà prossima la prima neve. 

Autunno, da "Stagioni", Mario Rigoni Stern

martedì 30 ottobre 2018

Presidente della Provincia: una scelta difficile

Sento il dovere di condividere una riflessione sul tema del nuovo Presidente della Provincia, perché da quando sono stato eletto, è forse la questione che più mi ha interrogato e fatto “soffrire”, considerato poi che su di me, consigliere di Vicenza, pesa anche la responsabilità di rappresentare (nel mio piccolo) il mondo civico e l’area del centrosinistra nell'interesse generale.
Questi sono giorni di vacanza “forzata” per noi insegnanti, a seguito del rischio allagamento, occasione per  prepararmi alle riunioni, alle Commissioni e ai direttivi in programma. Domani poi è un giorno importante, in V Commissione si parla di Ipab e, soprattutto, si vota per il Presidente della Provincia. 
Io e gli altri colleghi di minoranza di Vicenza non parteciperemo

Sono nuovo nel mondo dell’Amministrazione e della politica in generale, quindi provo a fare un favore a me stesso e alle persone che mi stanno vicine spiegando cosa significa questo voto. Non per dare lezioni, ma per capire bene l’importanza di questo momento per la nostra Comunità e per spiegare perché dico: “scelta sofferta”. In questi giorni veniamo definiti  “consiglieri ribelli”. Sebbene sia un aggettivo che a me piace molto, in questo caso mi rende triste perché quello che ci muove, invece, è distantissimo dalla “ribellione”.

Mi spiego. Dopo l'esito del Referendum Costituzionale, la Provincia rimane un Ente al servizio dei Comuni e al servizio dei cittadini, gestendo funzioni fondamentali come, ad esempio, le strade, le scuole medie superiori, l'ambiente, nonché alcune funzioni delegate dalla Regione come l’urbanistica, la protezione civile, il turismo. La Provincia nomina anche i rappresentanti in Enti, Aziende, Consorzi, Istituzioni, Società e organismi partecipati. Insomma, una grande responsabilità. Anche perché il Presidente della Provincia adotta provvedimenti amministrativi solitamente in forma di decreto, ovvero in una forma definitiva e immediatamente esecutiva. Un grande potere.

Dal 2014 però non si vota più andando ai seggi, perché questo voto è delegato ai sindaci e ai consiglieri comunali in carica a Vicenza e nella sua Provincia. Il voto viene ponderato a seconda della fascia di popolazione del comune rappresentato dall'elettore: abbiamo proprio una scheda di colore diverso, perché il voto di noi consiglieri di Vicenza, rappresentanti del Comune più grande, conta diversamente (di più).

Gli scorsi 4 anni hanno visto come Presidente Achille Variati, che ha voluto impostare il suo governo non secondo la logica “centrodestra contro centrosinistra”, bensì come “Casa dei Comuni”, luogo di collaborazione fra amministratori di città e provenienze politiche diverse per governare un’area vasta nell'interesse di tutti. 

Le ultime settimane sono state particolari. Chi mi conosce sa che non prendo questi appuntamenti “alla leggera”, soprattutto perché essendo nuovo cerco di informarmi il più possibile, nel rispetto più totale del mio ruolo e delle istituzioni con le quali ho l’onore di interfacciarmi. Sono poi un convinto sostenitore del dovere del voto, a maggior ragione in questo caso dove faccio da tramite.
Da qualche tempo io, Sandro e le persone che con me fanno politica, abbiamo chiesto, valutato, indagato chi fossero le persone che si volevano offrire per questa importante carica. Sapevamo che dopo le recenti elezioni il “vento” politico in Provincia girava a favore del Centrodestra, ma guardavamo, per esempio, con grande ammirazione e speranza a figure “nuove” come il giovane Sindaco di Chiampo Macilotti, che poteva essere il profilo di un amministratore “dal basso”, slegato da appartenenze ideologiche o partitiche, dove convergere insieme ad altri.

Ebbene, è successo che a poche ore dal termine di presentazione delle candidature, tutte, ma proprio tutte, le anime amministrative provinciali (centrodestra, centrosinistra, civici) convergessero sulla figura del Sindaco Rucco, con accordo firmato da alcuni rappresentanti circa le deleghe, le Vicepresidenze, la conformazione del futuro Consiglio Provinciale.
Una situazione a noi totalmente sconosciuta e, chiaramente, davvero difficile.

In primo luogo, avevamo bene in mente le parole del Sindaco che esprimeva – giustamente -  la preoccupazione sulle difficoltà che il quadruplo ruolo (Sindaco, Cultura, Sicurezza, Provincia) potesse comportare in un momento in cui la Città necessita del massimo impegno. Il Sindaco poi è solo da qualche mese alle prese con le difficoltà dell’amministrare, una responsabilità ben diversa da quella del “consigliare”.

In secondo luogo per il metodo con cui è avvenuta la scelta, che riflette la mancanza di un progetto condiviso. Che bello sarebbe stato trovarsi con altri amministratori della nostra terra, non dico per fare scelte diverse, quantomeno per conoscersi e capire, valutare di persona con chi doveva essere l’anima e il motore di questo accordo! 
In generale penso che, ancora una volta, si sia persa un’occasione. Un centrosinistra sempre più in crisi di consenso, perché in crisi di idee, ha scelto (pur con le sue ragioni) un accordo di spartizione delle cariche piuttosto che impegnarsi nella stesura di un documento programmatico forte e condiviso che individuasse le priorità di intervento nel territorio. 
So di per certo che le persone che hanno lavorato per questo accordo hanno agito in buonafede, pensando al bene di tutti, anche di quegli amministratori di centrosinistra che resistono nei nostri territori e che non possono rimanere fuori, lasciati soli, esclusi. L’amarezza però viene dal pensare al nostro compito, al dovere di rappresentare – anche - un’alternativa culturale e politica alla Lega e alle destre, di provare piano piano a valorizzare quei modelli veneti che resistono a questa lunga onda che oggi ci governa ad ogni livello.

Mi viene in mente questo passo dei Piccoli Maestri (guarda caso, ambientato in Provincia..)

"In tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, sbandati fraternizzavano con in nuovi renitenti, le famiglie incoraggiavano. c'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni. Tutto era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più, li avremmo potuti rifare noi, di sana pianta;   era ora". 

venerdì 26 ottobre 2018

Verba volant, scripta manent

Desidero spendere un piccolo pensiero per la nostra amata Biblioteca Bertoliana, che ha recentemente cambiato le persone alla sua guida i prossimi anni. È un luogo a cui devo tantissimo, davvero tanto, perché dentro quei palazzi pieni di storia e di opere preziose dal punto di vista umano, artistico, storiografico, archivistico, ho passato fra le ore migliori della mia vita, da studente come da volontario del Servizio Civile. 


Tante volte ho ascoltato il Presidente Giuseppe Pupillo. Soprattutto quando offriva a noi volontari l’immancabile caffè di metà mattinata, interessandosi del nostro lavoro, raccontandoci le novità da Palazzo Cordellina. Non lo nego, i suoi racconti mescolavano la speranza alla rassegnazione, dovuta al continuo naufragare di ogni progetto, dall’assenza cronica di un investimento strutturale di cui la Bertoliana aveva bisogno come l’aria per diventare il punto di riferimento culturale della Città. In lui, come in tutti i lavoratori e professionisti della Biblioteca che curano questo patrimonio fra mille difficoltà, non ho mai visto toni sopra le righe, prese di posizione preconcette come, ormai, succede quasi ovunque: è sempre più facile puntare i piedi e lasciar chiudere. 

Investire su questo luogo invece non è un “vezzo” culturale, un’idea come le altre: è un’emergenza, una necessità dovuta al fatto che il sistema-biblioteca (aule studio, scambio prestiti, conservazione di strutture storiche e patrimonio librario antico e moderno ), semplicemente non regge più con queste risorse, in questi spazi. Nonostante questo, la Bertoliana è ancora un patrimonio riconosciuto a livello nazionale (e non solo) per le sue opere antiche e rare, per il suo personale specializzato che offre anche gratuitamente o in modo precario la sua competenza, ma soprattutto per la voglia di stare insieme al di là delle etichette e delle appartenenze che è il senso ultimo dell’idea di Biblioteca: uno spazio libero per le persone e per il sapere.



Proprio per questo motivo fa rabbia pensare a quanto non si è fatto e non si potuto fare.  Ho letto l’intervista alla nuova Presidente Visentin, che dichiara in anticipo che i suoi consigli li prenderà dal professor Giulianati, spendendosi in dichiarazioni non entusiaste sul lavoro svolto in questi anni da associazioni come Amici della Bertoliana, della quale, a scanso di equivoci, non faccio parte. Porgo alla Presidente Visentin gli auguri di buon lavoro, sperando possa portare presto a risultati concreti, più concreti dell’annunciato cambio di denominazione che, francamente, non sembra la priorità. Mi permetto solo un piccolo appunto, Presidente: non disprezzi il lavoro di chi l’ha preceduta. La Bertoliana è il luogo di tutti, non ha colori politici. Le persone che ha citato nell’intervista hanno fatto tanto. Senza l’indispensabile appoggio dell’Amministrazione, e la volontà politica generale di puntare decisamente sulla Biblioteca, come non è stato fatto finora, ogni discorso è vano. 
Noi ci siamo. 



sabato 13 ottobre 2018

Mettere radici e sradicarsi

Sono trascorsi 125 giorni dalle elezioni che hanno consegnato una nuova Amministrazione alla mia Città. Sembra passato molto tempo, in realtà è successo poco. Pochi i Consigli comunali, poche le Commissioni, poco lo spazio per il dibattito. 


È grande invece il tempo e lo spazio sui giornali, le foto, gli annunci su Facebook. È anche grande, lo posso giurare, la voglia di partecipare, di riunirsi in associazione, di promuovere iniziative per la nostra attualità come per il lungo periodo: la cultura (Perché Vicenza non può sognare di esserne Capitale?), la nascita di centri sociali aggreganti, il progetto di una scuola politica. 

Di frequente persone della mia vita, amici, elettori che non sapevo di avere, mi fermano per chiedere conto delle dinamiche in Comune, un giudizio su questa e su quella persona, “cosa si può fare”. Io sono onorato di parlare di Vicenza e fungere da tramite, per quanto mi è possibile. Molti si aspettano un elenco delle cose che non vanno, degli errori dell’Amministrazione, dei suoi rappresentanti in Consiglio, un giudizio, un voto. Chiaramente, è mio dovere valutare e monitorare, dare un indirizzo. 

Non è invece nel mio stile, né in quello dell’Associazione che rappresento, il ruolo di agenzia stampa per la produzione di sentenze, pratica che nella politica e nella società di oggi si spreca ad ogni livello, dove si fa a gara per dare giudizi di “incompetenza”, “incapacità”, “corruzione”: la soluzione più facile. In questi mesi, sto imparando anche a conoscere prima di dire, qualche volta sbagliando.

Pensavo di scrivere di questi primi mesi da Capogruppo di minoranza. Oggi però sul giornale l’amico Giovanni Diamanti scrive un articolo dal titolo “La crisi dell’opposizione senza leader” che mi ha fatto molto pensare, e che mi offre l’occasione per fare il punto.

Giovanni concentra la sua riflessione sulle forze di minoranza di cui faccio parte, accusandole di essere "divise, senza un leader forte e riconosciuto” e a tal proposito fa un paragone con chi, dalla Minoranza, è passato oggi a essere Maggioranza: “Non è un caso che alla fine ad essere eletto sia stata una delle poche voci ostinatamente contrarie in questi anni, Francesco Rucco".

Non entro nel merito della sua analisi, anche se, per quello che ho potuto vedere, non credo che la candidatura del Sindaco Rucco abbia avuto un percorso “forte” né condiviso, e non ho visto negli anni precedenti un’opposizione “ostinata e dura” come lui la descrive. 

Questi termini però, lo ammetto, mi intrigano molto. Non passa giorno senza che mi confronti con persone circa l’equilibrio da tenere fra “radicalità” e “impegno civico”, sul non “sembrare troppo moderati” e “ottenere dei risultati”. Mi viene alla mente quando, questa estate, uscendo da Fornaci Rosse, un ragazzo – forse complice la birra - mi ha fermato dicendomi: “Selmo, tu sei giovane e hai anche un piercing. Devi essere radicale, battere duro!”. 
Excursus a parte, è un tema che mi interroga non poco.

Proseguendo con il suo ragionamento, Giovanni traccia un percorso: “Il centrosinistra e l'opposizione dovrebbero compattarsi e dar vita a un nuovo progetto a lungo raggio, identificando già ora delle figure che possano guidare questo percorso. Figure giovani, nuovi leader, che non facciano sconti alla maggioranza e che sappiano offrire progetti e prospettive.” Le caratteristiche del “leader” sono poi i temi di ogni campagna elettorale: “Forte sul territorio”, “presente nelle periferie e frazioni” e “meno legato ai partiti”. 

Concordo con Giovanni: un leader serve sempre, e con queste caratteristiche. Ma in questo momento, mentre sorseggio un caffè sul tavolo della cucina, cercando informazioni sul depuratore di Casale (tema della prossima Commissione Territorio), in questo istante sento dentro di me il desiderio forte di sfidare una visione statica e deterministica delle cose. La sfido perché vorrei vedere nella nostra Comunità, nel nostro Paese, emergere prima di tutto una cultura politica e poi, solo poi, che questa venga valorizzata da un leader. In particolar modo oggi, che i disillusi sono la maggioranza.


Sono tempi duri per chiunque si definisca di sinistra (ma io preferirei dire “per chi opera a sinistra”) - io non lo nego. Sono anni che a sinistra si cerca un leader condiviso. Sembra di vivere in un’opera di Beckett in cui si aspetta Godot, il leader di una fantomatica sinistra che dovrebbe essere in grado di fare battaglia sulle idee ancor prima che sulle persone. “Il 2023, politicamente, è dietro l'angolo. Viviamo i tempi della campagna permanente, e Vicenza non è impermeabile alle nuove esigenze della politica veloce” – scrive Giovanni, che è anche un professionista del settore. 

Lo dico: mi spaventa la “campagna elettorale permanente”. Mi spaventa il rischio di farci scavalcare dalle scorciatoie, dall'esigenza compulsiva di essere sul giornale un giorno sì e l'altro pure. Mi spaventa scadere in un’opposizione – in un impegno - che sia sola facciata e trafiletti sul giornale, ad un linguaggio sempre colorito, da "piazza". Ovviamente non è di questo che parla Giovanni: ma è il rischio che io avverto.

Mi discosto però dall'ansia del “candidato da trovare” e pongo l’accento sul presente da curare con un percorso davvero controcorrente, che non si proponga in prima battuta di far cadere il governo del Paese o della città, ma di farlo funzionare al meglio. 

Chiara, la persona con la quale io e i miei amici ci siamo - insieme - “candidati”, mi ha regalato queste parole che vorrei condividere con voi. Perché le porteremo dentro Da adesso in poi (la nostra piattaforma, non l'unica, non la migliore) con molta umiltà e tanta convinzione. 



“Penso che ognuno di noi, compiendo le proprie grandi o piccole scelte quotidiane, si conceda delle occasioni per “stare dentro” alcune situazioni piuttosto che altre. Ognuno di noi fa le proprie strade e grazie ai propri percorsi può raccontare ciò che coglie e, anzi, se ognuno potesse sentirsi libero di raccontare le cose belle o difficili che sta capendo, potremmo regalarci gli uni gli altri alcuni piccoli specchi dentro cui guardarci! 
Per me l’importante, quello che mi ha fatto decidere di candidarmi, è essere prossima, poter stare dove nascono e si condividono i pensieri di chi desidera governare... per mescolare anche i miei pensieri... per aprire punti di vista... condividere le mie idee! 

Oggi, in questo momento della mia vita, questo è R-ESISTERE... esistere dentro cose che non capisco fino in fondo, che mi spaventano e che mi mettono davanti a quel maledetto specchio.”

La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere...“ 


(Léopold Sédar Senghor)


martedì 28 agosto 2018

Colli Berici

Si parte! Sono felice, enormemente entusiasta di ripartire zaino in spalla e fazzolettone al collo.


Per il terzo anno trenta ragazzi da tutta Italia cammineranno per le strade di Vicenza e dei Colli Berici confrontandosi su scelte, volontariato, utilizzo del proprio tempo, Chiamata e politica. 

Questo è un campo al quale teniamo molto: ovviamente perché l'abbiamo nel cuore, avendolo curato dall'inizio, pensato dal nulla con un po' di sana incoscienza e un certo orgoglio per la bellezza delle nostre strade. 

Ma soprattutto per l'energia che danno i ragazzi, la speranza grande che ci trasmettono con i loro dubbi e con le incertezze che sono anche le nostre. Siamo fortunati: tanti vicentini questi giorni donano il loro tempo per aprire le porte e far conoscere le loro realtà di servizio. Il grande mondo del volontariato che in questa città opera continuamente, rispondendo all'esigenza di una comunità, impiegando il tempo con progettualità, competenza, gratuità: le caratteristiche del nostro "essere servitori", prima che "fare servizio".

E farlo insieme in un paesaggio così strano e umido. 

I Colli Berici sono dietro a Vicenza, a sud; con minuscole propaggini, come miniate, fanno vallette e insenature. In una c’è un laghetto triste che si chiama Fimòn; al di là del Laghetto si divaricano due versanti pelosi, come gambe distese. La divaricazione è considerevole sotto alle ginocchia, e lì c’è il lago,  come una antica urinata del monte; dalle ginocchia in su il monte tiene le gambe più strette. La terra è cretosa, tutta cosparsa di riccioli di castagne; ci sono alcune case isolate; la gente che vi abita vive sempre in questo luogo, passa qui tutta la vita. Sono così poveri, che non si capisce come riescano a campare: tutto ciò che si può dire è che stanno in piedi, e quando aprono la bocca vien fuori la voce; mangiano anche, cucinano, e ne danno anche a noi; ridono. […] – 

Queste case non mi parevano edifici, ma modi di vivere; le corti tra i castani, e le viottole, e le stalle, e i sottoportici, tutto era mescolato alla povertà, era questa la forma della valle e della vita italiana.


(Luigi Meneghello, I piccoli maestri, BUR, pp. 202-203)

domenica 15 luglio 2018

Un mese dopo

Primo mese da consigliere comunale. Tutto è successo con una velocità disarmante.

Comincio ad avere più dimestichezza con gli spazi fisici di Palazzo Trissino: Sala di Minoranza, Ufficio di Presidenza, Sala Bernanda. Entrare nel Palazzo da Corso Palladio mi emoziona tantissimo, all'entrata c’è il gatto Romeo che mi guarda e mentre cammino attraverso le sale del Palazzo riesco quasi a toccare la grandezza delle persone che si sono spese prima di me: mi sento piccolo e grande nello stesso momento. In sala di minoranza c’è una cassetta delle lettere a me riservata. Quando ci sediamo per costruire insieme la nostra opposizione, ho bene in mente la nostra parte di città che chiede - ed è (nei fatti, più che negli ordini del giorno) - una voce alternativa. Penso al tesoro umano e associativo della sinistra vicentina, anche quella che non crede di avere rappresentanti in Consiglio; penso alla metà dei cittadini vicentini che non sono andati a votare.

Comincio a conoscere le persone e ad osservare idee e comportamenti. Ovviamente è ancora presto, ma in (quasi) tutti, anche negli amministratori distanti anni luce da me, percepisco un grande amore per la città e un certo senso di responsabilità nel fornire sicurezze ai cittadini. Purtroppo sono risposte che parlano di una città ben diversa da quella che noi sogniamo: nuclei speciali antidegrado, auto - sempre più auto -, l’annientamento del Bilancio Partecipativo, lo stravolgimento del Parco della Pace, appena qualche riga per immigrazione, inquinamento, giovani. Solo per citarne alcune.

Sono capogruppo della mia lista e parteciperò ai lavori di tre Commissioni: Affari istituzionali, Territorio e Servizi alla popolazione. Sono felicissimo di questi incarichi! La cosa più bella è riportare queste mie impressioni come faccio ora con voi, condividendo il mio servizio con l'associazione e con il gruppo di persone coinvolte in campagna elettorale. Entrambe le dimensioni sono pura energia per il mio servizio: con me ci sono persone alle quali non ho semplicemente chiesto dei voti. Mi viene da pensare a quanti siano i cittadini presenti, competenti, che vogliono esserci e vogliono contare.

Il 24 luglio avremo un Consiglio Comunale importante: si votano le Linee Programmatiche e quindi si delineerà l’idea di città per i prossimi 5 anni. Ma qual è l’idea, la mission della città?

Difficile a dirsi, anche studiando, analizzando in profondità il documento, come abbiamo fatto questi giorni. Il Sindaco ci ha invitati a valutare questo documento in maniera  non “ideologica” ma costruttiva. Noi, in un’ottica davvero civica, ben consci di essere minoranza, stiamo provando sul serio a dare il nostro contributo per migliorare le Linee. Vorremmo intervenire sul merito del futuro, delle strategie, come ci è richiesto, ma risulta quasi impossibile: tanti slogan e qualche strumento caro alla destra populista, poca sostanza, zero visione. Questo ci preoccupa.

Io e Sandro abbiamo ricevuto tanti contributi: non me ne aspettavo così tanti, in pieno luglio. Segno che ci siamo, siamo attivi, che sarà decisivo il coinvolgimento di tutti nella nostra attività in Consiglio e fuori, perché avremo bisogno anche delle idee di chi non si sente rappresentato.

Parlavo delle grandi persone che hanno seduto in quei banchi prima di me. Una di queste è il poeta Bandini, che faceva poesia fissando i ricordi di un’Italia che non c’è più e scriveva di Vicenza. 

Questa sua poesia bellissima, densa, è l’augurio che anche le nostre più modeste azioni siano “capaci di serbare un segno segreto” e con molta “umana realtà”, studio, passione, siano pronte a costruire qualcosa più grande di noi.

FOSSERO I MIEI VERSI

Fossero i miei versi quello che la neve
è per i bambini quando si svegliano
e guardano dal vetro sbalorditi la lieve
polvere caduta da lontani mondi.

Fossero i miei versi quello che l'acqua
di maggio è per i meli dalla foglia lustra
quello che il vento è per i pini (una frusta
verde che schiocca sulla selva e sul pascolo).

Quello che per i pesci guizzanti è la ghiotta
esca, per il tordo bottaccio
la trappola insidiosa fatto col setaccio
di casa ancora sporco di farina.

Capaci di catturare, capaci di ferire,
capaci di serbare un segno segreto,
un mistero d'origine nel lieto
turbinio delle cose che lievita la massa.

Fossero i miei versi quello che le stelle
sono per la notte quando esplodono in cielo
come larghi rododendri sullo stelo
d'un sospiro che veglia alle finestre.

Fossero i miei versi di bella fattura
ma nutriti di umana realtà.
Fossero i miei versi come la libertà
aria della lotta e pane del riposo.

lunedì 28 maggio 2018

Sotto i riflettori?

Prendo una pausa dal clima di campagna per mettere in ordine le idee e condividerle con chi rimane “fuori” dalle dinamiche elettorali. In realtà anch'io rimango "nuovo" di fronte a tutto questo.

Lo trovo un impegno stimolante, elettrizzante: offro un contributo (la faccia) per una Città in cui credo molto, moltissimo. Non mi piacciono, a dir la verità, i tempi compassati, gestiti da altri, la necessità di apparire il più possibile, la ricerca della visibilità quando necessaria ad un risultato prima personale e poi comunitario. 
Vedo questo atteggiamento in alcuni candidati e anche in me stesso, in certi momenti.

A me e a Chiara è sembrato onesto fin da subito dedicare il giusto tempo per approfondire tutti i temi, indagare la realtà, ma abbiamo presto capito quanto fosse controcorrente con la pressione e l’esigenza di comunicare che ci viene chiesta, o anche solo con la necessità di partecipare ad eventi programmati dall'oggi al domani.

Così abbiamo preso un pezzo di città e ci siamo dedicati a quello con tutta la serietà e la disponibilità che potevamo dare. Ci stiamo provando con metodo a partire dai temi delle nostre vite: giovani, educazione, comunità, partecipazione. C’è l’emozione di raccontare la scelta e le idee, a volte l’ansia e il senso di inadeguatezza, la sensazione di usare le persone. Ma prevale su tutto la gioia che è condividere il percorso con degli altri, e con la nostra associazione.

Non sapevamo quante fossero (più di 500) le persone che come noi si spendono con una candidatura. Fra questi tanti amici, amministratori che ci hanno formato e stimolato ad arrivare fino a qui. Siamo sereni, felici di questa grande partecipazione che ci fa pensare che il numero dei “rimasti fuori”, dei non rappresentati, si sia quantomeno assottigliato, ridotto. Ognuno porta il suo contributo con un percorso specifico, nella prospettiva, vera, di spendersi per la Città con “altre” persone, rappresentanti di mondi diversi.

Abbiamo scelto che lavoro, volontariato, affetti e famiglia non venissero stravolti da questi mesi. In questo, personalmente, non sono stato bravo.  

Abbiamo scelto di farlo come Giovanni e Chiara, portatori dei nostri “tratti”, riconoscendo nell'altro genere la responsabilità e lo spazio per portare le proprie caratteristiche in quanto donna (l’ospitalità, la pazienza, la tenerezza) e in quanto uomo (il senso della possibilità e di protezione, l’ironia). Questo, per me, è bellissimo. 



Ci sono poi alcune parole che sto sentendo troppo, mi riferisco a “rete”, “alleanza”, “sportello”, “tavolo”, “squadra”, ecc. Si sta abusando anche dei gruppi whatsapp e si usa troppa carta. Ma sono davvero felice, motivato e vivo, perché vedo questa opportunità come l'inizio di un percorso. Abbiamo scoperto che basta davvero poco: si comincia da un gruppo di persone che, a partire dalle proprie idee e risorse personali, contribuisce con il proprio ruolo e la propria esperienza. In queste settimane, attorno a noi, non ci sono mai stati rapporti di gerarchia e tutto si discute a partire dal valore della proposta. C’è chi sa comunicare, chi sa scrivere, chi ha amici, chi ci mette la casa, chi ascolta e basta. Io e Chiara abbiamo compiuto tutti i nostri “passi politici” con questo metodo finora.
E pur facendo, qualcuno è lasciato indietro.

Sto capendo e immaginando, e sono fiducioso che la Città scelga il meglio per sé stessa, allontani le facili tentazioni e le semplificazioni, per pensare soprattutto alla sfida successiva, quel “poi” che non può limitarsi al 10 giugno.

“E quando finisce la guerra, 
cosa pensate di fare?”
“Andiamo giù, no?”
“E cosa farete, quando sarete giù?”
“I saccheggi”
[…] ”E poi?” dissi “dopo i saccheggi?”
Il Castagna si mise a guardarmi, e disse: 
“Voi siete studenti, no?”
Io feci segno di si, e lui disse: 
“Si vede subito che siete finetti”.
“Castagna”, dissi. “Non credi che bisognerebbe provare a cambiare l’Italia? 
Non andava mica bene, com’era prima. 
Si potrebbe dire che siamo qui per quello.”
“A dirtela proprio giusta,” disse il Castagna, 
“a me dell’Italia non importa mica tanto.”
“Ma t’importerà chi comanda a Canóve, no?” Canóve era il suo paese.[1]


[1] Meneghello L., “I piccoli maestri”, cit., pp.76-77

mercoledì 16 maggio 2018

In una casa di Padova


Così Marietto ed io, tra gli appuntamenti e i viaggi e i Comitati, dovevamo sforzarci anche di studiare. Non ci passava nemmeno per la testa, si capisce, di studiare roba di scuola, esami. Studiavamo allo stesso tavolo, nelle ore e nelle rare giornate senza appuntamenti e senza viaggi, ravvolti nelle coperte del letto, coi passamontagne in testa, e i guanti di lana. 

Era un corso accelerato di sapienza anti-fascista. Toccando i quaderni rossi di Giustizia e Libertà, si aveva la sensazione di attingere a una fonte immensa e quasi sacra. Cercavamo di intendere e di assorbire non solo i saggi presi nel loro insieme, ma i singoli paragrafi, le frasi staccate. 
A volte ci venivano dubbi e sconforti. Che cosa faremo quando finisce la guerra di mestiere? mi domandavo; ma non dicevo niente a Marietto, non volevo deprimerlo. 

La guerra civile è una cosa troppo seria, dicevamo, per lasciarla fare alle passioni, al caso. Occorre affidarsi a un'impostazione razionale, meditare la lezione del passato, essere storicisti. Avevamo una fede ardente nella parola storicismo. 

Sentivamo profonda la necessità di stroncare ogni tentativo di giustizia sommaria, ogni confusione passionale, anzi pensavamo che i prevedibili abusi in questo senso dovrebbero venire equiparati a un grado della GNR e puniti con la stessa pena. Bisognava fare il bene dell'Italia, estirpare al proprio cuore l'odio, lasciar governare la ragione. 

Così nella nostra cameretta si configurava il problema della liquidazione della Guerra Civile. Ci era venuto, si vede, un accesso di follia da guerra civile acuta. Eravamo soli e imbacuccati nella nostra camera fredda, due filosofi, due storicisti, due robespierrini in una casa di Padova.

Marietto stava cavandosi i calzinotti. Li chiamava così. Era un ragazzino, appena uscito dalla famiglia si può dire; tutti lo eravamo in fondo, ma lui di più. Si lavava la faccia e il collo sfregando e sfregando, come le mamme una volta imponevano ai bambini di fare; si vestiva, si sfilava i calzinotti, si comportava in tutto coi gesti e i modi di un ragazzino; dietro ai nomi toscani dei suoi indumenti si sentivano gli ammonimenti familiari diventati costume.

Me lo arrestarono, Marietto, al principio della Primavera. Era partito in bicicletta, direzione Venezia, con un grosso pacco sul portabagagli: si cercava sempre di partire appena finito il coprifuoco, alla mattina presto. A Marietto ruppero alcune cartilagini e qualche osso, questo lo sappiamo, perché ala fine della guerra quando venne fuori non erano ancora aggiustati, ma lui non s'è mai curato di raccontare i particolari. 


Io ero con Marietto ora; Marietto era uscito di prigione con gli altri politici, e i ladri, nel corso della mattina; 

mi era venuto incontro per strada come un'apparizione in piena luce del giorno, vivo e sano, salvo alcune cose rotte, che non si vedevano. 


mercoledì 25 aprile 2018

Un ragazzo delle nostre contrade

Il suo mestiere era quello di passare a raccogliere il latte nelle stalle sparse per le contrade e portarlo al caseificio sociale; mattina e sera per tutti i giorni dell'anno, perché mattina e sera le vacche vengono munte e ogni giorno il Silvio casaro mette il latte nelle caldaie per fare il formaggio d'allievo: quello che stagionando per tre anni acquista il sapore dei pascoli esposti al sole. [...]


"Dai, Moretto" gli diceva qualche volta Massimo, "raccontaci come va con le morose". Già, perché oltre a essere un bel ragazzo, era sempre allegro e gentile e tutte le ragazze delle contrade erano innamorate di lui. Il Moretto la situazione dei fronti la sentiva facendo il giro del latte perché quasi in ogni casa c'era via qualcuno: o nei Balcani, o in Francia, o in Russia; erano quasi tutti suoi amici e si faceva dire dai familiari cosa scrivevano. [...]

L'autunno pareva scivolar via limpido con le vacche al pascolo sui prati falciati, ma qualcosa diceva invece che era torbido. E nero si sarebbe presentato l'inverno. Un giorno il Moretto stava lavando i bidoni del latte e sentì Massimo fischiettare soprapensiero un motivo che gli sembrava nuovo e anche no. Gli chiese cosa fosse. Massimo lo guardò un poco in silenzio e infine si decise a rispondergli che era l'Internazionale, l'inno dei socialisti che aveva imparato in Francia, e riprese a zangolare la panna. Ma subito smise e avvicinandosi gli disse: "Ma se lo fai sentire in piazza ti mettono dentro". Volle ricordare il motivo per fischiettarlo alla cavalla nei tratti di strada deserta, e pensò: "Ma perché ti devono imprigionare per una canzone?"

Un giorno di quell'inverno venne di corsa uno dal paese per avvisare che le brigate nere si preparavano per una sortita verso le contrade. Il Moretto e qualche altro presero la strada del bosco cercando di confondere le tracce sulla neve. I brigatisti vennero, perquisirono le case dalle cantine alle soffitte, e le stalle, i fienili e le barchesse. Quando le brigate nere se ne andarono a rovistare nella casa del Moretto, un ufficiale, dopo aver controllato il numero civico sopra la porta, lesse forte il suo nome. Nemmeno i ragazzi dissero che c'era, nemmeno la sorella Nelda, e la madre confermò che dopo l'8 settembre non avevano avuto più notizia di lui. Nella stalla slegarono la Linda, l'ufficiale ci salì sopra a cavalcarla e ritornarono verso il paese. Alla sera il Moretto uscì dal bosco e s'avviò verso casa. "La Linda" disse. "La mia cavalla. Mi hanno portato via la Linda." E si mise a piangere come un bambino. "Come faccio a raccogliere il latte senza la Linda?"

[...] A Malga Fossetta si era costituito un gruppo dove la maggior parte dei componenti erano laureati o studenti di città. C'erano anche due inglesi. Questo gruppo era comandato da Toni Giuriolo, un famoso antifascista di Vicenza, e il Moretto, perché conosceva bene la montagna, era lì come guida. la notte tra il 4 e il 5 giugno vennero in tanti. Per ogni strada che portava alla montagna salivano file di camion con su tedeschi, fascisti e russi. Circondarono delle zone ben delimitate da strade o crinali, stabilirono dei posti fissi e poi rastrellarono camminando a contatto con le armi spianate. Spararono; bruciarono malghe e pastorili. 

[...] Dopo un anno la guerra era finita. un pomeriggio venne a cercarmi Sandro. Con Don Angelo, zia Corinna ed altri era stato incaricato di raccogliere i corpi dei caduti e dei fucilati; ma non era sempre facile localizzare il luogo preciso dove la terra e l'erba e i muschi dei boschi li coprivano. 

Partimmo di buonora con il camioncino, i miei compagni erano quasi tutti allegri per la giovinezza e la vita che erano riusciti a conservare intatte dopo la lotta partigiana. Io, invece, sentivo dentro una stanchezza mortale e un grigiore cupo, come se il tempo dei campi di concentramento mi si fosse tutto condensato addosso ora che ero ritornato a casa, a contatto con la libertà, e la forza che avevo avuto un tempo fosse rimasta impigliata nei reticolati.

Arrivammo a Malga Fossetta. [...] Esaminammo la stretta gola dove erano saltati i partigiani di Roana (dopo il volo si salvarono perché sotto, quell'anno, c’era tanta neve e scivolarono via), rivedemmo i cespugli dove avevamo raccolto gli altri corpi.

Fu Bruno che trovò un fazzoletto all'imboccatura di un vaio. Ci chiamò. Riconobbero che era stato suo, del Moretto. Uno si calò con la corda e sulla prima scaffa trovò il parabellum senza più un colpo. Guardando giù per i precipizi della Valsugana a qualcuno sembrava di vedere una macchia più scura dentro un mugo isolato sopra altri precipizi. Tentammo di calare con le corde, ma non arrivavano fin là; e le rocce, in quel punto, erano molto friabili. Silvio disse: "Faccio io il giro per Porta Moline e vado per sotto".

Quando raggiunse il punto, Silvio non ci gridò niente; stette curvo per un bel poco e poi cercò di avvicinarsi fin sotto la parete: "Calate giù le corde" ci gridò da sotto, "e un telo". Quando Silvio stava risalendo, portando sulle spalle il telo con dentro il corpo, ci investì un temporale che non avevamo avvertito in tempo. 

Il telo con dentro il corpo stava ora su un ripiano di pietra e pioveva gelido. Apparvero delle fotografie stinte e bagnate dove si potevano ancora ricostruire visi di ragazze sorridenti o sognanti. Lo portammo giù tra la pioggia gelida e la grandine; alla chiesetta degli alpini del Bassano ci fermammo per ripararci dal temporale. Sul camion lo coprimmo di fiori gocciolanti e due giorni dopo ebbe un funerale che nemmeno un re avrà mai.

Da “Ritorno sul Don”, “Un ragazzo delle nostre contrade”, Mario Rigoni Stern

sabato 14 aprile 2018

In punta di piedi

Scrivo queste parole in punta di piedi. il mio impegno “politico” prende la strada della candidatura al Consiglio Comunale. È una cosa piuttosto nuova e decisamente grande, per uno “piccolo” come me. Infatti non trovo i termini giusti per spiegare cosa sto provando, il senso di questa scelta, ma sento di doverci provare, fare un veloce tentativo con Nuvole Rapide, che da dieci anni ormai raccoglie i miei pensieri. Sorrido, tornando ai post di dieci anni fa: riflessioni di un giovane rappresentante di istituto, molto idealismo, manifestazioni, e poi accenni alla mia vita, sofferenze, storie d’amore, mia mamma. Un filo comune che lega tutto: Vicenza, il mio posto nella città.

La cosa bella, di questo mio abbraccio alla città, è che non userò più la prima persona singolare. Con me, in questa sfida, c’è Chiara. Sono fortunato, perché servono davvero gli occhi di una donna per guardare di una città i suoi “graffi, intagli e svirgole”, come in quelle Invisibili di Calvino. Chiara è una compagna speciale: insieme a lei condivido una stessa forma di servizio, idee di comunità, amicizia. E vogliamo provarci, immaginare una città da costruire in una lista che non sia una delle tante, proporci – per quello che potremo – in alternativa a certi istinti beceri che in Veneto fanno così breccia nelle persone. 

La sfida che solo accenno, in questi versi, mi affascina. È un servizio che siamo curiosi di provare. Nell'album di figurine dei miei miti di ragazzo, insieme a qualche calciatore, sono molti i pacchetti di personaggi storici, politici. Nei miei scaffali, dove dorme anche il gatto, trova spazio la Rivoluzione Francese (“una cosa giusta”), il “prendersi cura” di Don Milani, i Piccoli Maestri, che per me sono una faccenda dannatamente concreta, reale, una vicentinità che mi rende orgoglioso fino alla pelle d’oca, fino agli occhi lucidi.

C’è una fusione che mi dà gioia: la politica, la città, il metodo che uso nel mio lavoro e nel mio servizio, i miei amici. Sono felice del mio impegno in Vicenza Capoluogo, un’associazione che mi aiuta perché concepisce la politica come servizio basato sulla competenza, offrendo gli strumenti per crescere e per mettersi a disposizione con progettualità, a prescindere dalle dinamiche elettorali.

Mi definisco “piccolo” perché non riesco a slegare la politica dai miei sogni e dai miei studi, dalla musica, dalla montagna; non resisto alla tentazione di riscoprire quello che io e i miei compagni siamo stati dieci, quindici anni fa, ai tempi delle grandi marce in città: oggi vogliamo le stesse cose.

Ora, dopo la fase del "tutto va male, le forze scemano, che fatica trovare lavoro", c’è la voglia di esplorare territori nuovi, trovare il giusto linguaggio perché le persone si possano attivare. Ora, e non domani, sentiamo di potere ascoltare ma anche dire di giovani, educazione, partecipazione, ambiente. Sono felice di poter scrivere e ragionare a quattro mani, in punta di piedi, “pensando, seriamente, a chi altro possa interessarsi”, di queste sfide che dicono di noi, della nostra lista, della nostra  città. 


Lelio ed io avevamo una mezza idea di dover metterci noi due soli a fare i ribelli, contro gli estensori di manifesti: non avevamo pensato seriamente al problema di chi altro potesse interessarsi. Fummo presi in contropiede. Il mio paese era pieno di gente come noi. Era irriconoscibile, il mio paese: a ogni ora arrivavano soldati dai quattro cantoni dell’orizzonte, e tutti si cercavano, cercavano noi, volevano fare qualcosa, organizzarsi. […]

La sera, a Vicenza, giravamo per le strade in piccole pattuglie di amici, a tre a tre, e la gente si radunava, si contava; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. C’era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l’avevano con la guerra, e implicitamente, contro il sistema che prima l’aveva voluta cominciare, e poi l’aveva grottescamente perduta per forfé. Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l’esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante. Si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale. Ma guarda un po’, dicevamo con Lelio; vien fuori che c’è per davvero, la volontà popolare […][1]


[1] Piccoli Maestri, capitolo 3.

domenica 18 marzo 2018

Cospirativi al bar


In queste settimane di pioggia e neve ho visto alcuni luoghi che non conoscevo. Come l’Oratorio dei Proti, un posto magico dove vivono persone anziane, in comunità, l'una affianco all’altra, proprio in centro. Quindi, la Bottega San Faustino, una piccola osteria nascosta in un angolo magico della città che è Piazzetta Goffredo Parise, dove lo scrittore viveva e ambientava storie che – diceva – traevano ispirazione dai suoni surreali del cinematrografo Odeon, il cui schermo era dietro il Portone di questa chiesa. Ci sono le sue parole, scolpite su una parete, che lo ricordano: “su un terrazzino al terzo piano, udivo i suoni e le parole che accompagnavano immagini che non vedevo. Se dovessi riassumere questa emozione in poche parole, anzi in una sola, direi semplicemente che essa era un’emozione poetica”.


👞 Per arrivare a Piazzetta Parise, mi avventuro per le vie di un Centro quasi deserto: piove a dirotto. Percorro strade che sono luoghi di incontro da sempre; nei primi anni Trenta del Novecento erano la sede ufficiosa della cerchia di Giuriolo. Intorno a questo professore si raggruppano persone, negli anni, soprattutto la sera. Docenti, giovani, studenti, ragazzi delle Parrocchie: i Filippini, Santo Stefano. In una città addormentata, iniziano a scambiarsi libri, riviste, pareri, recensioni. Una rete che si allarga con il passaparola. È Giuriolo ad attirare come una calamita personaggi diversi, rapiti da questo giovane professore senza tessera, e quindi precario, un uomo pacato, timido, che riesce però a dare un senso alle scelte, alle serate di qualcuno, girando le strade poco illuminate della città pertirarsi fuori dall’ambito delle famiglie (o dell’ambiente casa-scuola-campo sportivo), sottrarci al giro delle influenze automatiche e ovattanti tra cui si era cresciuti💬.

Chiesa di San Faustino 
In questi giorni si chiacchiera sui giovani, sui migranti, Vicenza e altre faccende di questo tenore: il PD, le elezioni, "iscriversi in massa al Partito!”. Giochiamo a cospirare, cioè a intenderci in maniera segreta, perché non faremo tutto quello che ci proponiamo. Nemmeno in quegli anni Trenta furono in molti a esprimere azioni concrete, a cospirare.

💭 Ma esistevano gruppi che si muovevano slegati, inconsapevoli protagonisti di microproteste, e alcuni di loro approdarono all’antifascismo: ragazzi nati negli anni Venti. Forse, si può ancora girare la città in cerca di momenti, persone o luoghi così. Ovviamente senza pretendere di trovare maestri: è sufficiente un’osteria appartata per parlare in tranquillità senza cellulare, dove ognuno si spieghi “senza proporsi di dimostrare qualcosa”. 


💬Antonio non separava ciò che studiava e pensava per conto proprio da ciò che insegnava a noi. Era proprio questa la forza del suo insegnamento: non c'era tono didascalico, non svolgeva un programma. Parlava delle cose a cui si stava interessando senza proporsi di dimostrare qualcosa, o di convincerci. Ci faceva assistere al suo rapporto vivo con esse, ciò che ammirava, ciò che detestava. Non mi pare che si curasse molto di accertarsi in qualche modo, come si farebbe a scuola, che capivamo e imparavamo. Non c’era tempo per questo. Ti trovavi davanti a un mondo di idee oggettivate, che parevano tuttavia strappate dal tuo interno. Le avevi davanti, toccava a te arrangiarti.

In questo modo S. si trovò a contatto con un uomo colto, e con una cultura viva.


La nuova cultura aveva dentro una tagliente lama politica. Si richiamava a una civiltà già esistente (quella che doveva essere crollata sotto i colpi del Duce, press’a poco negli anni in cui S. era nato), ma era piena di forza rinnovatrice, e politicamente rivolta al futuro. Il suo impegno immediato era la lotta per ciò che prospettava come la “redenzione” del nostro paese; 

Essa veniva a toccare la cultura scolastica e la struttura della mente di S. in tutta una serie di punti critici, e in ciascuno di questi l’effetto era esplosivo. Per la prima volta gli pareva di pensare, e si sentiva pensare. Se in principio gli avrebbe fatto spavento e ribrezzo l’idea di poter diventare “antifascista”, ora quel sentimento s’invertiva, e alla fine sarebbe inorridito di essere ancora fascista. Fu un processo esaltante e lacerante insieme: un po’ come venire in vita, e nello stesso tempo morire》[1]


[1] Meneghello L., Fiori Italiani

sabato 3 marzo 2018

Quel seggio tra i boschi

A ogni elezione i Comuni devono far uscire dai magazzini le cabine elettorali, le matite copiative, le candele, gli spaghi che sono in dotazione a ogni seggio; provvedere alle installazioni dei tabelloni per pubblicizzare le liste e i candidati; compilare e notificare i certificati elettorali dopo aver aggiornato gli elenchi degli elettori: emigrati, immigrati, deceduti, nuovi iscritti. Un lavoro indispensabile per far funzionare questa più o meno efficiente democrazia.

Ma perché al tempo dell'elettronica si vota come si faceva un secolo fa? Non potrebbe un cittadino, al compimento del 18° anno, ricevere un tesserino simile a quello del codice fiscale e usarlo da certificato elettorale? Questo mi veniva da considerare l'altro giorno quando ebbi occasione di assistere al sorteggio degli scrutatori per i nove seggi del mio comune, e mi ricordai che in una delle prime elezioni del dopoguerra, quando dopo la parentesi fascista la democrazia era entusiasmante, mi diedi da fare per ottenere un posto di scrutatore, non solo per il singolare lavoro che molto mi incuriosiva, ma anche perché con il compenso che veniva dato avrei potuto comperarmi un paio di scarpe per la festa. 

Venni assegnato al seggio di una frazione lontana tredici chilometri dal centro dove abito; un piccolo borgo a sua volta frazionato in sette o otto contrade sparse sui fianchi di una montagna al sole. Il pomeriggio precedente le elezioni ci ritrovammo davanti al municipio e una vecchia auto da rimessa ci caricò tutti: il presidente, che era un vecchio cancelliere in pensione appassionato di caccia al capanno, il segretario, un maestro elementare arrivato tra noi esule dall'Istria, e noi quattro scrutatori.

Al villaggio, davanti alle scuole, sede predisposta per il seggio, ci aspettavano due alpini armati e una guardia forestale. Poco dopo, su un'altra macchina arrivarono il sindaco, il segretario comunale e il capo guardaboschi per consegnarci il materiale: le liste, le schede, gli stampati e una copia della legge elettorale. La cosa, per questa prima volta, ci sembro complicata e subito, tutti, ci mettemmo a studiare la legge che il vecchio cancelliere ci leggeva a voce alta. Poi con molta attenzione e meticolosità ci insediammo, dando inizio alle operazioni: il controllo del materiale, delle schede, delle liste degli elettori iscritti al seggio a mano a mano che il segretario compilava il primo verbale.

Dopo sigillammo le schede firmate da due di noi; le finestre con spago e ceralacca. Quando la luce della sera venne meno, dovemmo accendere i lumi a petrolio perché in quel villaggio la corrente elettrica non era ancora arrivata. Alla fine il nostro primo compito ci parve ben assolto, e dopo l'ultimo verbale, alla presenza dei due alpini armati e della guardia forestale, sigillammo anche la porta. Le guardie al seggio avrebbero dormito nel corridoio su due pagliericci. Ecco, ora potevamo andare all'Osteria del Brusamolin a bere qualcosa e aspettare l'auto mandata dal Comune a riprenderci. 

Alle cinque di domenica ci ritrovammo tutti davanti al municipio, alle sei giungemmo al nostro seggio e incominciava l'alba; dalla valle che precipitava profonda dopo il piccolo cimitero sentimmo l'ultimo canto della capinera e il primo dei tordi. Suonò la campana della piccola chiesa curaziale di Sant'Antonio. Levammo i sigilli alla porta dopo che le guardie ci assicurarono che era trascorsa una notte molto tranquilla. Dissigillammo anche le finestre per fare entrare l'aria del mattino. Il nostro presidente non volle però levarsi la palandrana. Ancora un verbale, un controllo alle cabine, alle schede, alle liste dei candidati che dovevano essere esposte, alle punte delle matite copiative. 

Ci dividemmo i compiti e alle sette precise il nostro presidente fece chiudere le finestre e aprire la porta dalla guardia forestale che aveva il compito di «capo posto». Il presidente stava seduto al centro del tavolo, formato da quattro assi d'abete lunghe quattro metri e posate su cavalietti, ricoperte da carta da pacco; a destra aveva il segretario; noi scrutatori due per parte con le liste degli elettori. Tutti in giacca, camicia candida e cravatta. Già qualche elettore era in attesa nel corridoio della scuola. Il primo a entrare fu Domi che, malgrado il nomignolo, era per noi un personaggio storico di sottile e caustica intelligenza, anche se pochi erano stati i suoi studi. Poi qualche vecchia, tra queste la Catinona: una che faceva scappare gli uomini che osavano passare sulle sue proprietà. Vennero boscaioli, carbonai, il parroco, cavatori, contadini, ma quasi nessuno dei tanti emigrati venne a votare, e troppi nomi non venivano spuntati e annotati con «ha votato». 

Vennero invece a curiosare i ragazzi della scuola e in una pausa il nostro presidente acconsentì a loro di visitare il seggio. Intanto il segretario, seguendo le istruzioni, compilava fin dove era possibile gli stampati per i verbali e gli scrutini. A mezzogiorno, siccome non era possibile arrivare a turno nelle nostre case lontane, andammo a mangiare all'Osteria della Linda, la quale ci preparò con amore un vero pranzo con ottime cose. Già nel tardo pomeriggio di quella domenica elettorale tutti gli elettori e le elettrici del piccolo villaggio erano venuti a votare; secondo la legge, però, il seggio doveva restare aperto sino alle ventidue, per poi riaprirsi lunedì dalle sette alle quattordici. Nelle ore vuote andavamo ogni tanto a fare quattro passi per la contrada fumando una sigaretta e scambiando parole con la gente. 

Alle quattordici meno qualche minuto arrivò Paluro: uno con una grande barba irsuta, l'aspetto selvaggio; odorava di stalla e di tabacco da sentieri. Quest'uomo viveva solitario in una casa appartata dentro una valletta ed era sempre in conflitto con il guardaboschi per taglio abusivo di faggio. Presentò il suo certificato e gli consegnammo le schede. Entrò nella cabina per esprimere il suo voto ma il difficile fu per lui ripiegare le schede. Entrava e usciva dalla cabina presentandocele aperte o mal ripiegate, o l'una dentro l'altra. Alla fine il presidente decise di mandarmi ad aiutarlo con l'impegno da parte mia di non guardare dove aveva segnato il voto. 

Lo spoglio venne molto facile perché erano poco più di un centinaio le schede da scrutinare; molto pochi erano i voti di preferenza, nessuna bianca, poche le nulle o le contestate. Un curioso dibattito avvenne tra il pubblico che seguiva lo scrutinio: un partito di destra che avrebbe dovuto raccogliere due voti se ne trovò uno solo, e i due erano lì che si imputavano a vicenda il presunto tradimento. Alle cinque il nostro lavoro era già finito; il segretario telefonò al segretario comunale perché venissero a prenderci. 

Alle sei, in Pretura, eravamo i primi a consegnare la volontà popolare di un piccolo villaggio sparso tra le montagne. 

Mario Rigoni Stern
La Stampa, Sabato 4 Aprile 1992