mercoledì 25 aprile 2018

Un ragazzo delle nostre contrade

Il suo mestiere era quello di passare a raccogliere il latte nelle stalle sparse per le contrade e portarlo al caseificio sociale; mattina e sera per tutti i giorni dell'anno, perché mattina e sera le vacche vengono munte e ogni giorno il Silvio casaro mette il latte nelle caldaie per fare il formaggio d'allievo: quello che stagionando per tre anni acquista il sapore dei pascoli esposti al sole. [...]


"Dai, Moretto" gli diceva qualche volta Massimo, "raccontaci come va con le morose". Già, perché oltre a essere un bel ragazzo, era sempre allegro e gentile e tutte le ragazze delle contrade erano innamorate di lui. Il Moretto la situazione dei fronti la sentiva facendo il giro del latte perché quasi in ogni casa c'era via qualcuno: o nei Balcani, o in Francia, o in Russia; erano quasi tutti suoi amici e si faceva dire dai familiari cosa scrivevano. [...]

L'autunno pareva scivolar via limpido con le vacche al pascolo sui prati falciati, ma qualcosa diceva invece che era torbido. E nero si sarebbe presentato l'inverno. Un giorno il Moretto stava lavando i bidoni del latte e sentì Massimo fischiettare soprapensiero un motivo che gli sembrava nuovo e anche no. Gli chiese cosa fosse. Massimo lo guardò un poco in silenzio e infine si decise a rispondergli che era l'Internazionale, l'inno dei socialisti che aveva imparato in Francia, e riprese a zangolare la panna. Ma subito smise e avvicinandosi gli disse: "Ma se lo fai sentire in piazza ti mettono dentro". Volle ricordare il motivo per fischiettarlo alla cavalla nei tratti di strada deserta, e pensò: "Ma perché ti devono imprigionare per una canzone?"

Un giorno di quell'inverno venne di corsa uno dal paese per avvisare che le brigate nere si preparavano per una sortita verso le contrade. Il Moretto e qualche altro presero la strada del bosco cercando di confondere le tracce sulla neve. I brigatisti vennero, perquisirono le case dalle cantine alle soffitte, e le stalle, i fienili e le barchesse. Quando le brigate nere se ne andarono a rovistare nella casa del Moretto, un ufficiale, dopo aver controllato il numero civico sopra la porta, lesse forte il suo nome. Nemmeno i ragazzi dissero che c'era, nemmeno la sorella Nelda, e la madre confermò che dopo l'8 settembre non avevano avuto più notizia di lui. Nella stalla slegarono la Linda, l'ufficiale ci salì sopra a cavalcarla e ritornarono verso il paese. Alla sera il Moretto uscì dal bosco e s'avviò verso casa. "La Linda" disse. "La mia cavalla. Mi hanno portato via la Linda." E si mise a piangere come un bambino. "Come faccio a raccogliere il latte senza la Linda?"

[...] A Malga Fossetta si era costituito un gruppo dove la maggior parte dei componenti erano laureati o studenti di città. C'erano anche due inglesi. Questo gruppo era comandato da Toni Giuriolo, un famoso antifascista di Vicenza, e il Moretto, perché conosceva bene la montagna, era lì come guida. la notte tra il 4 e il 5 giugno vennero in tanti. Per ogni strada che portava alla montagna salivano file di camion con su tedeschi, fascisti e russi. Circondarono delle zone ben delimitate da strade o crinali, stabilirono dei posti fissi e poi rastrellarono camminando a contatto con le armi spianate. Spararono; bruciarono malghe e pastorili. 

[...] Dopo un anno la guerra era finita. un pomeriggio venne a cercarmi Sandro. Con Don Angelo, zia Corinna ed altri era stato incaricato di raccogliere i corpi dei caduti e dei fucilati; ma non era sempre facile localizzare il luogo preciso dove la terra e l'erba e i muschi dei boschi li coprivano. 

Partimmo di buonora con il camioncino, i miei compagni erano quasi tutti allegri per la giovinezza e la vita che erano riusciti a conservare intatte dopo la lotta partigiana. Io, invece, sentivo dentro una stanchezza mortale e un grigiore cupo, come se il tempo dei campi di concentramento mi si fosse tutto condensato addosso ora che ero ritornato a casa, a contatto con la libertà, e la forza che avevo avuto un tempo fosse rimasta impigliata nei reticolati.

Arrivammo a Malga Fossetta. [...] Esaminammo la stretta gola dove erano saltati i partigiani di Roana (dopo il volo si salvarono perché sotto, quell'anno, c’era tanta neve e scivolarono via), rivedemmo i cespugli dove avevamo raccolto gli altri corpi.

Fu Bruno che trovò un fazzoletto all'imboccatura di un vaio. Ci chiamò. Riconobbero che era stato suo, del Moretto. Uno si calò con la corda e sulla prima scaffa trovò il parabellum senza più un colpo. Guardando giù per i precipizi della Valsugana a qualcuno sembrava di vedere una macchia più scura dentro un mugo isolato sopra altri precipizi. Tentammo di calare con le corde, ma non arrivavano fin là; e le rocce, in quel punto, erano molto friabili. Silvio disse: "Faccio io il giro per Porta Moline e vado per sotto".

Quando raggiunse il punto, Silvio non ci gridò niente; stette curvo per un bel poco e poi cercò di avvicinarsi fin sotto la parete: "Calate giù le corde" ci gridò da sotto, "e un telo". Quando Silvio stava risalendo, portando sulle spalle il telo con dentro il corpo, ci investì un temporale che non avevamo avvertito in tempo. 

Il telo con dentro il corpo stava ora su un ripiano di pietra e pioveva gelido. Apparvero delle fotografie stinte e bagnate dove si potevano ancora ricostruire visi di ragazze sorridenti o sognanti. Lo portammo giù tra la pioggia gelida e la grandine; alla chiesetta degli alpini del Bassano ci fermammo per ripararci dal temporale. Sul camion lo coprimmo di fiori gocciolanti e due giorni dopo ebbe un funerale che nemmeno un re avrà mai.

Da “Ritorno sul Don”, “Un ragazzo delle nostre contrade”, Mario Rigoni Stern

sabato 14 aprile 2018

In punta di piedi

Scrivo queste parole in punta di piedi. il mio impegno “politico” prende la strada della candidatura al Consiglio Comunale. È una cosa piuttosto nuova e decisamente grande, per uno “piccolo” come me. Infatti non trovo i termini giusti per spiegare cosa sto provando, il senso di questa scelta, ma sento di doverci provare, fare un veloce tentativo con Nuvole Rapide, che da dieci anni ormai raccoglie i miei pensieri. Sorrido, tornando ai post di dieci anni fa: riflessioni di un giovane rappresentante di istituto, molto idealismo, manifestazioni, e poi accenni alla mia vita, sofferenze, storie d’amore, mia mamma. Un filo comune che lega tutto: Vicenza, il mio posto nella città.

La cosa bella, di questo mio abbraccio alla città, è che non userò più la prima persona singolare. Con me, in questa sfida, c’è Chiara. Sono fortunato, perché servono davvero gli occhi di una donna per guardare di una città i suoi “graffi, intagli e svirgole”, come in quelle Invisibili di Calvino. Chiara è una compagna speciale: insieme a lei condivido una stessa forma di servizio, idee di comunità, amicizia. E vogliamo provarci, immaginare una città da costruire in una lista che non sia una delle tante, proporci – per quello che potremo – in alternativa a certi istinti beceri che in Veneto fanno così breccia nelle persone. 

La sfida che solo accenno, in questi versi, mi affascina. È un servizio che siamo curiosi di provare. Nell'album di figurine dei miei miti di ragazzo, insieme a qualche calciatore, sono molti i pacchetti di personaggi storici, politici. Nei miei scaffali, dove dorme anche il gatto, trova spazio la Rivoluzione Francese (“una cosa giusta”), il “prendersi cura” di Don Milani, i Piccoli Maestri, che per me sono una faccenda dannatamente concreta, reale, una vicentinità che mi rende orgoglioso fino alla pelle d’oca, fino agli occhi lucidi.

C’è una fusione che mi dà gioia: la politica, la città, il metodo che uso nel mio lavoro e nel mio servizio, i miei amici. Sono felice del mio impegno in Vicenza Capoluogo, un’associazione che mi aiuta perché concepisce la politica come servizio basato sulla competenza, offrendo gli strumenti per crescere e per mettersi a disposizione con progettualità, a prescindere dalle dinamiche elettorali.

Mi definisco “piccolo” perché non riesco a slegare la politica dai miei sogni e dai miei studi, dalla musica, dalla montagna; non resisto alla tentazione di riscoprire quello che io e i miei compagni siamo stati dieci, quindici anni fa, ai tempi delle grandi marce in città: oggi vogliamo le stesse cose.

Ora, dopo la fase del "tutto va male, le forze scemano, che fatica trovare lavoro", c’è la voglia di esplorare territori nuovi, trovare il giusto linguaggio perché le persone si possano attivare. Ora, e non domani, sentiamo di potere ascoltare ma anche dire di giovani, educazione, partecipazione, ambiente. Sono felice di poter scrivere e ragionare a quattro mani, in punta di piedi, “pensando, seriamente, a chi altro possa interessarsi”, di queste sfide che dicono di noi, della nostra lista, della nostra  città. 


Lelio ed io avevamo una mezza idea di dover metterci noi due soli a fare i ribelli, contro gli estensori di manifesti: non avevamo pensato seriamente al problema di chi altro potesse interessarsi. Fummo presi in contropiede. Il mio paese era pieno di gente come noi. Era irriconoscibile, il mio paese: a ogni ora arrivavano soldati dai quattro cantoni dell’orizzonte, e tutti si cercavano, cercavano noi, volevano fare qualcosa, organizzarsi. […]

La sera, a Vicenza, giravamo per le strade in piccole pattuglie di amici, a tre a tre, e la gente si radunava, si contava; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i preti con qualche cautela davano il benestare. C’era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l’avevano con la guerra, e implicitamente, contro il sistema che prima l’aveva voluta cominciare, e poi l’aveva grottescamente perduta per forfé. Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l’esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante. Si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà generale. Ma guarda un po’, dicevamo con Lelio; vien fuori che c’è per davvero, la volontà popolare […][1]


[1] Piccoli Maestri, capitolo 3.