lunedì 28 maggio 2018

Sotto i riflettori?

Prendo una pausa dal clima di campagna per mettere in ordine le idee e condividerle con chi rimane “fuori” dalle dinamiche elettorali. In realtà anch'io rimango "nuovo" di fronte a tutto questo.

Lo trovo un impegno stimolante, elettrizzante: offro un contributo (la faccia) per una Città in cui credo molto, moltissimo. Non mi piacciono, a dir la verità, i tempi compassati, gestiti da altri, la necessità di apparire il più possibile, la ricerca della visibilità quando necessaria ad un risultato prima personale e poi comunitario. 
Vedo questo atteggiamento in alcuni candidati e anche in me stesso, in certi momenti.

A me e a Chiara è sembrato onesto fin da subito dedicare il giusto tempo per approfondire tutti i temi, indagare la realtà, ma abbiamo presto capito quanto fosse controcorrente con la pressione e l’esigenza di comunicare che ci viene chiesta, o anche solo con la necessità di partecipare ad eventi programmati dall'oggi al domani.

Così abbiamo preso un pezzo di città e ci siamo dedicati a quello con tutta la serietà e la disponibilità che potevamo dare. Ci stiamo provando con metodo a partire dai temi delle nostre vite: giovani, educazione, comunità, partecipazione. C’è l’emozione di raccontare la scelta e le idee, a volte l’ansia e il senso di inadeguatezza, la sensazione di usare le persone. Ma prevale su tutto la gioia che è condividere il percorso con degli altri, e con la nostra associazione.

Non sapevamo quante fossero (più di 500) le persone che come noi si spendono con una candidatura. Fra questi tanti amici, amministratori che ci hanno formato e stimolato ad arrivare fino a qui. Siamo sereni, felici di questa grande partecipazione che ci fa pensare che il numero dei “rimasti fuori”, dei non rappresentati, si sia quantomeno assottigliato, ridotto. Ognuno porta il suo contributo con un percorso specifico, nella prospettiva, vera, di spendersi per la Città con “altre” persone, rappresentanti di mondi diversi.

Abbiamo scelto che lavoro, volontariato, affetti e famiglia non venissero stravolti da questi mesi. In questo, personalmente, non sono stato bravo.  

Abbiamo scelto di farlo come Giovanni e Chiara, portatori dei nostri “tratti”, riconoscendo nell'altro genere la responsabilità e lo spazio per portare le proprie caratteristiche in quanto donna (l’ospitalità, la pazienza, la tenerezza) e in quanto uomo (il senso della possibilità e di protezione, l’ironia). Questo, per me, è bellissimo. 



Ci sono poi alcune parole che sto sentendo troppo, mi riferisco a “rete”, “alleanza”, “sportello”, “tavolo”, “squadra”, ecc. Si sta abusando anche dei gruppi whatsapp e si usa troppa carta. Ma sono davvero felice, motivato e vivo, perché vedo questa opportunità come l'inizio di un percorso. Abbiamo scoperto che basta davvero poco: si comincia da un gruppo di persone che, a partire dalle proprie idee e risorse personali, contribuisce con il proprio ruolo e la propria esperienza. In queste settimane, attorno a noi, non ci sono mai stati rapporti di gerarchia e tutto si discute a partire dal valore della proposta. C’è chi sa comunicare, chi sa scrivere, chi ha amici, chi ci mette la casa, chi ascolta e basta. Io e Chiara abbiamo compiuto tutti i nostri “passi politici” con questo metodo finora.
E pur facendo, qualcuno è lasciato indietro.

Sto capendo e immaginando, e sono fiducioso che la Città scelga il meglio per sé stessa, allontani le facili tentazioni e le semplificazioni, per pensare soprattutto alla sfida successiva, quel “poi” che non può limitarsi al 10 giugno.

“E quando finisce la guerra, 
cosa pensate di fare?”
“Andiamo giù, no?”
“E cosa farete, quando sarete giù?”
“I saccheggi”
[…] ”E poi?” dissi “dopo i saccheggi?”
Il Castagna si mise a guardarmi, e disse: 
“Voi siete studenti, no?”
Io feci segno di si, e lui disse: 
“Si vede subito che siete finetti”.
“Castagna”, dissi. “Non credi che bisognerebbe provare a cambiare l’Italia? 
Non andava mica bene, com’era prima. 
Si potrebbe dire che siamo qui per quello.”
“A dirtela proprio giusta,” disse il Castagna, 
“a me dell’Italia non importa mica tanto.”
“Ma t’importerà chi comanda a Canóve, no?” Canóve era il suo paese.[1]


[1] Meneghello L., “I piccoli maestri”, cit., pp.76-77

mercoledì 16 maggio 2018

In una casa di Padova


Così Marietto ed io, tra gli appuntamenti e i viaggi e i Comitati, dovevamo sforzarci anche di studiare. Non ci passava nemmeno per la testa, si capisce, di studiare roba di scuola, esami. Studiavamo allo stesso tavolo, nelle ore e nelle rare giornate senza appuntamenti e senza viaggi, ravvolti nelle coperte del letto, coi passamontagne in testa, e i guanti di lana. 

Era un corso accelerato di sapienza anti-fascista. Toccando i quaderni rossi di Giustizia e Libertà, si aveva la sensazione di attingere a una fonte immensa e quasi sacra. Cercavamo di intendere e di assorbire non solo i saggi presi nel loro insieme, ma i singoli paragrafi, le frasi staccate. 
A volte ci venivano dubbi e sconforti. Che cosa faremo quando finisce la guerra di mestiere? mi domandavo; ma non dicevo niente a Marietto, non volevo deprimerlo. 

La guerra civile è una cosa troppo seria, dicevamo, per lasciarla fare alle passioni, al caso. Occorre affidarsi a un'impostazione razionale, meditare la lezione del passato, essere storicisti. Avevamo una fede ardente nella parola storicismo. 

Sentivamo profonda la necessità di stroncare ogni tentativo di giustizia sommaria, ogni confusione passionale, anzi pensavamo che i prevedibili abusi in questo senso dovrebbero venire equiparati a un grado della GNR e puniti con la stessa pena. Bisognava fare il bene dell'Italia, estirpare al proprio cuore l'odio, lasciar governare la ragione. 

Così nella nostra cameretta si configurava il problema della liquidazione della Guerra Civile. Ci era venuto, si vede, un accesso di follia da guerra civile acuta. Eravamo soli e imbacuccati nella nostra camera fredda, due filosofi, due storicisti, due robespierrini in una casa di Padova.

Marietto stava cavandosi i calzinotti. Li chiamava così. Era un ragazzino, appena uscito dalla famiglia si può dire; tutti lo eravamo in fondo, ma lui di più. Si lavava la faccia e il collo sfregando e sfregando, come le mamme una volta imponevano ai bambini di fare; si vestiva, si sfilava i calzinotti, si comportava in tutto coi gesti e i modi di un ragazzino; dietro ai nomi toscani dei suoi indumenti si sentivano gli ammonimenti familiari diventati costume.

Me lo arrestarono, Marietto, al principio della Primavera. Era partito in bicicletta, direzione Venezia, con un grosso pacco sul portabagagli: si cercava sempre di partire appena finito il coprifuoco, alla mattina presto. A Marietto ruppero alcune cartilagini e qualche osso, questo lo sappiamo, perché ala fine della guerra quando venne fuori non erano ancora aggiustati, ma lui non s'è mai curato di raccontare i particolari. 


Io ero con Marietto ora; Marietto era uscito di prigione con gli altri politici, e i ladri, nel corso della mattina; 

mi era venuto incontro per strada come un'apparizione in piena luce del giorno, vivo e sano, salvo alcune cose rotte, che non si vedevano.