mercoledì 24 gennaio 2018

Povertà, cioè sapere scegliere bene

È un momento in cui è difficile credere nel voto e nei suoi effetti. Personalmente, ci sono alcune questioni che mi lasciano incerto, spiazzato e distante dal 4 marzo:

1.    Il tasso di disoccupazione all’11 per cento, quello giovanile al 32,7.

2.    Ogni talk trasformato in annuncio, ogni tg in una promessa, i social bombardati di: abrogazioni, incentivi, pensioni minime, canone, redditi di circostanza, tasse universitarie...

3.    Non avere una legge elettorale valida, sapere che nessuna delle coalizioni (centro-destra, centro-sinistra, Movimento 5 stelle) al momento avrebbe la maggioranza per governare. Quindi ancora stallo, ancora grigiore di alleanze tra forze diverse.

4.    Sapere il Movimento 5 Stelle in alto e la coalizione di centro-destra sulla cresta dell’onda. I loro messaggi.

5.    Non sapere ancora cosa fare.

Verrebbe da dire: studiamo i programmi, ascoltiamo le persone e cerchiamo di filtrare le balle. È quello che direi a un ragazzo degli scout se mi chiedesse un consiglio. Per fortuna non succede, anche perché non ne sono affatto convinto.

Allora, proviamo un cambio di strategia: votare chi la spara più piccola. Chi non promette ma almeno prova a spiegare: “la situazione è questa, possiamo fare questo”. Certo, anche qui è difficile.

Mi è ricapitato per le mani questo famosissimo scritto di Parise, contenuto in un piccolo libricino rosso, quasi nascosto fra gli scaffali di Galla, dove lo si può trovare e leggere in mezz’ora, poco più. 
Il titolo stona con il formato grazioso: si chiama Dobbiamo disobbedire.

Per il Corriere della Sera Parise scriveva racconti, articoli, ma anche reportages dal Laos e dal Cile… Aveva anche una rubrica dove rispondeva alle lettere. Oggi risponde a me, con questo articolo datato 30 giugno 1974. Con Berlusconi, Grillo e Salvini che si apprestano a controllare la quasi totalità del Parlamento, viene da pensare: cosa c’entra? “Il rimedio della povertà”, poi, è uno scritto utopico e idealistico. Eppure, cosa direbbe quarantotto anni dopo Goffredo Parise? Lui lamentava proprio una mancanza, uno smarrimento, polemizzava sulla democrazia e sul senso di appartenenza nazionale, sull’individualismo. Forse nella povertà, quella che lui spiega in maniera così alta, aveva intravisto una risposta, oltre al problema. La povertà con la quale “si impara a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare”.

Queste parole mi riempiono, mi rendono fiero di questo mio concittadino al quale abbiamo regalato una piazza, qualche giorno fa, nell’indifferenza dei più. Orgoglioso della sua idea di “disobbedienza civile”, che tengo insieme ai suoi libri bene in ordine nello scaffale sopra il letto. Credo allora andrò al seggio (e a letto) con le sue parole in testa.

A votare cosa? Ancora non so.


✏✉«E ora veniamo alla povertà.

Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.

I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La bellissima Contrà San Rocco
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.

Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».



Goffredo Parise, "Il rimedio è la povertà", Corriere della Sera, 30 giugno 1974

mercoledì 10 gennaio 2018

Migliaia di storie

Sul Vicenza Calcio e sul calcio in generale ho speso tante (troppe) parole. So che, aggiungendone altre, urterò la pazienza di qualcuno. Già molte teste - coinvolte davvero, o meno – hanno ricordato il Lanerossi in qualche modo, in questi giorni.
Io lo faccio ancora, lo stesso. Questa squadra sono io, è la mia vita, sono le mie scelte (anche se è difficile a credersi), è il mio quotidiano, le mie relazioni, parte di sogni reali e di delusioni brucianti.

Il mio amico Umberto, dopo anni di viaggi e peripezie, è arrivato a vedere per la prima volta una partita con me al Menti. Ha scritto una cosa che mi ha molto colpito: 

"Non ne capisco niente di calcio. Credo che uno dei lussi oggi sia anche cambiare idea e dire: mi sono sbagliato. Se ne va un pezzo della mia città, e ho capito: poche cose contengono migliaia di storie. Una squadra di calcio contiene migliaia di storie, di persone, come una guerra. Non avrei mai pensato di provare tristezza per il calcio, è riuscita a darmi una lezione questa squadra, meglio tardi che mai. Forza Lane."


È stato il messaggio che ho apprezzato più di ogni altro. “Poche cose contengono migliaia di storie”. Ho osservato a lungo queste "cose" negli amici che hanno compiuto scelte diverse dalle mie, cose che a volte anche io ho provato. “Passioni”, “hobby”: come vogliamo chiamarle queste "cose" che contengono migliaia di storie? Non mi interessa. Le riconosco nei viaggi, nella montagna, nel ballo, nella musica, nei festival, nell'impegno politico. 
Delle tante “ storie” che legano il bianco e il rosso alla mia vita, ho scelto di appuntarmi queste istantanee, immagini un po’ sfuocate, di anni diversi. Non sono immagini romantiche e nemmeno poetiche, ma sono mie e sono reali. Con questo giuro di finirla, perché il calcio non è tutto, e il calcio a Vicenza non è finito. 

La mia famiglia. Il pranzo la domenica dal nonno ai Carmini, la tavola rotonda con zii e cugine, “gli uomini” (io l’unico nipote maschio) in bicicletta verso lo stadio. Stavo sul palo della bici di papà, sul poggia-sedere griffato Gatton Gattoni che ancora usa. In curva potevi entrare gratis se eri alto fino a così. 

L’invasione di campo della festa promozione. Una bandiera a scacchi biancorossa comprata in Viale Mazzini durante i caroselli che ho perso solo l’anno scorso a Verona, quando è finita davvero. Chissà.

Il goal - di cucchiaio - di Sgrigna al Toro a dicembre con la neve. Quello di Cavalli al Napoli. Tutte le meravigliose giocate di Stefan Schwoch in campionati mediocri, le sue lacrime e la scelta di restare a Vicenza. Il goal al Verona. "Mamma che goal". In generale, ogni volta che gonfiamo la rete, in ogni categoria. 

Le partite in notturna sotto la neve  e la pioggia, e il giorno dopo scuola, la mamma che dice che prendo freddo, la soffitta in Corso Padova. 

Empoli, il cielo toccato con un dito al goal di Paolucci, il cuore a pezzi quando sbaglia il rigore poco dopo, le interminabili ore in bus al ritorno. 

Quei locali dove siamo di casa e che (credo) di questo fallimento siano tristi più di noi. Pitanta, l’Osteria a Santa Barbara, il St. Peter’s, il Bar Astra, la rotatoria di Ponte degli Angeli. 

Persone (molte di merda) con le quali parlo tutti i giorni di Lanerossi. Posti, città, bar dove non sarei mai andato e dove non ritornerò. Una pioggia di fumogeni bianchi l’ultima partita; fumo dalle orecchie, fumo nel naso. 

“Quand'è che mi sveglio?! Sono anche troppo sveglio. Vorrei non esserlo, vorrei dormire per le prossime dieci stagioni."
 
“Stagioni? Sono stufa di sentir parlare di queste stramaledette stagioni, nella vita reale si chiamano anni, Paul. Sai, da gennaio a dicembre!” 
“Non per tutti è così!” 

Fumo