martedì 19 novembre 2013

Mondiali, università, moti popolari

Perdo tempo, ancora. Questa sera dovevo studiare. Ero in cucina. Un inglese, un italiano e un francese hanno rubato uno schermo dal garage, e ora guardano la Francia qualificarsi per la coppa del Mondo. Io tifavo per gli avversari, gli sfavoriti, ma in fondo sono felice che tutte le nostre squadre giocheranno insieme in Brasile. Chissà come li seguiremo questi mondiali, chissà se insieme, o dove.
Chissà se li guarderemo, in effetti.

Gioco col tempo quando in realtà non ne ho molto: devo rispondere a molte cose, a persone, impegni. Ma qui sono solo, e amo restare sospeso fino all’ultimo, fino a tardi. Questo riesce a calmarmi, ora sono calmo. Sono felice, per questa partita, per i posti che andrò a visitare con la camicia arancione, per i mille progetti assurdi e irrealizzabili che mi sono fatto a scuola in silenzio. La scuola. Sono tre mesi, in Francia, 6 anni, all’Università. Ho fatto questi conti in classe, mentre qualche parola francese del professore mi sfiorava soltanto, di striscio.

Non riesco a non pensare all’Università Italiana.

Non ho il diritto, la voglia, e soprattutto la capacità intellettuale per sputare nel piatto dove mangio. Studiare all’estero è un’esperienza, umana e culturale, indispensabile. Ma stasera guardo il calcio. Non mi sembra di essere una persona poco culturale, poco interessata; non mi sembra di evitare i miei devoirs. Ma è esattamente così.

La “scuola” di Padova è tutta un’altra cosa. Ripeto il termine, “scuola”, perché sento di appartenerci, a Palazzo Maldura, Palazzo Luzzato, al Liviano. Stasera rivorrei indietro tutti i corsi, dalla triennale alla magistrale, tutti i professori, il panico, realissimo e giustificato, per esami grandi e importanti. Non voglio fare l’intellettuale: sono sempre stato uno studente modesto, estremamente innamorato e orgoglioso di quello che studia, troppo pigro, troppo cazzone. Ho iniziato a studiare tardi, e so di pagarne ora i risultati. Probabilmente è anche la ragione per cui voglio continuare a studiare -che sia storia, francese o religione- anche nei prossimi tempi. Anche se non dipende da me.

A Grenoble non ci sono esami, monografie, bibliografie. Ci sono compitini che non riescono a spaventarmi, “dossier” fastidiosi da preparare, lavori da tradurre, a casa. La biblioteca non è aperta la sera, il sabato, la domenica. In classe non c’è la “lezione frontale”. Per molti, e non a torto, è un bene: non c’è aura reverenziale, non c’è un professore che chiama a sé il silenzio in classe. C’è un clima amichevole, sempre. A molti piace. Forse c'è anche una ragione: deve stimolare lo scambio fra studenti, lo scambio fra docenti e elevi, lo scambio di nozioni: gli scambi insomma.


Io non ci trovo grandi cose, grandi scambi. Sono un retrogrado. Vorrei ancora imparare tanto, imparare come imparavo a Padova, dove il silenzio era il più delle volte ammirazione, voglia di ascoltare veramente, di annotare la riflessione di qualcuno più importante di te. A Padova non hai il tempo per pensare a un’osservazione intelligente, che faccia ben figurare. Si studia, si ascolta annoiati Cino da Pistoia, si schematizzano manuali che lì per lì sono puro nozionismo, brani di autori mai banali, mai facili.

Allora penso che restare in silenzio, e rispondere con risposta precisa a domanda precisa in un esame di letteratura, sia il massimo della formazione umana e professionale. Non mi interessa fare il protagonista se quello che dico saranno ovvietà. È davvero troppo vasta la letteratura, e troppe le cose da studiare, per assumersi già il diritto, enorme, di giocare sullo stesso livello di un professore.

Una settimana di ricerche fra Google e biblioteca, cosa sono in confronto a una vita passata sui libri?


La grande umiltà della “lezione padovana” è proprio questa: quando non si interviene non è per paura, per istupidimento collettivo, ma è una lezione! Una scelta accurata di parole: sono già tante quelle che dobbiamo studiare, non abbiamo bisogno di aggiungercene una valanga, ancora. Quello che riusciamo a capire, a far nostro in silenzio, un giorno potrà magari servire per essere dall’altra parte dell’aula. 
C’est sur.