martedì 19 novembre 2013

Mondiali, università, moti popolari

Perdo tempo, ancora. Questa sera dovevo studiare. Ero in cucina. Un inglese, un italiano e un francese hanno rubato uno schermo dal garage, e ora guardano la Francia qualificarsi per la coppa del Mondo. Io tifavo per gli avversari, gli sfavoriti, ma in fondo sono felice che tutte le nostre squadre giocheranno insieme in Brasile. Chissà come li seguiremo questi mondiali, chissà se insieme, o dove.
Chissà se li guarderemo, in effetti.

Gioco col tempo quando in realtà non ne ho molto: devo rispondere a molte cose, a persone, impegni. Ma qui sono solo, e amo restare sospeso fino all’ultimo, fino a tardi. Questo riesce a calmarmi, ora sono calmo. Sono felice, per questa partita, per i posti che andrò a visitare con la camicia arancione, per i mille progetti assurdi e irrealizzabili che mi sono fatto a scuola in silenzio. La scuola. Sono tre mesi, in Francia, 6 anni, all’Università. Ho fatto questi conti in classe, mentre qualche parola francese del professore mi sfiorava soltanto, di striscio.

Non riesco a non pensare all’Università Italiana.

Non ho il diritto, la voglia, e soprattutto la capacità intellettuale per sputare nel piatto dove mangio. Studiare all’estero è un’esperienza, umana e culturale, indispensabile. Ma stasera guardo il calcio. Non mi sembra di essere una persona poco culturale, poco interessata; non mi sembra di evitare i miei devoirs. Ma è esattamente così.

La “scuola” di Padova è tutta un’altra cosa. Ripeto il termine, “scuola”, perché sento di appartenerci, a Palazzo Maldura, Palazzo Luzzato, al Liviano. Stasera rivorrei indietro tutti i corsi, dalla triennale alla magistrale, tutti i professori, il panico, realissimo e giustificato, per esami grandi e importanti. Non voglio fare l’intellettuale: sono sempre stato uno studente modesto, estremamente innamorato e orgoglioso di quello che studia, troppo pigro, troppo cazzone. Ho iniziato a studiare tardi, e so di pagarne ora i risultati. Probabilmente è anche la ragione per cui voglio continuare a studiare -che sia storia, francese o religione- anche nei prossimi tempi. Anche se non dipende da me.

A Grenoble non ci sono esami, monografie, bibliografie. Ci sono compitini che non riescono a spaventarmi, “dossier” fastidiosi da preparare, lavori da tradurre, a casa. La biblioteca non è aperta la sera, il sabato, la domenica. In classe non c’è la “lezione frontale”. Per molti, e non a torto, è un bene: non c’è aura reverenziale, non c’è un professore che chiama a sé il silenzio in classe. C’è un clima amichevole, sempre. A molti piace. Forse c'è anche una ragione: deve stimolare lo scambio fra studenti, lo scambio fra docenti e elevi, lo scambio di nozioni: gli scambi insomma.


Io non ci trovo grandi cose, grandi scambi. Sono un retrogrado. Vorrei ancora imparare tanto, imparare come imparavo a Padova, dove il silenzio era il più delle volte ammirazione, voglia di ascoltare veramente, di annotare la riflessione di qualcuno più importante di te. A Padova non hai il tempo per pensare a un’osservazione intelligente, che faccia ben figurare. Si studia, si ascolta annoiati Cino da Pistoia, si schematizzano manuali che lì per lì sono puro nozionismo, brani di autori mai banali, mai facili.

Allora penso che restare in silenzio, e rispondere con risposta precisa a domanda precisa in un esame di letteratura, sia il massimo della formazione umana e professionale. Non mi interessa fare il protagonista se quello che dico saranno ovvietà. È davvero troppo vasta la letteratura, e troppe le cose da studiare, per assumersi già il diritto, enorme, di giocare sullo stesso livello di un professore.

Una settimana di ricerche fra Google e biblioteca, cosa sono in confronto a una vita passata sui libri?


La grande umiltà della “lezione padovana” è proprio questa: quando non si interviene non è per paura, per istupidimento collettivo, ma è una lezione! Una scelta accurata di parole: sono già tante quelle che dobbiamo studiare, non abbiamo bisogno di aggiungercene una valanga, ancora. Quello che riusciamo a capire, a far nostro in silenzio, un giorno potrà magari servire per essere dall’altra parte dell’aula. 
C’est sur. 

domenica 13 ottobre 2013

37, avenue Washington


Nel pomeriggio mi sono trovato da solo. Capisco che è normale solo fino a un certo punto: oggi è una mia decisione, anche se succede a tutti, succede spesso. Sento che a conti fatti è una mia responsabilità: insomma che è un momento dove voglio la mia casa, quella degli affetti più sicuri, che non devi conquistare, meritare, coltivare ogni giorno magari rischiando molto, provando anche a sbagliare, con nuove persone.

Sono da solo e lontano da casa, e in questi istanti molto veri mi rendo conto di approfittare degli affetti, sia di quelli già imbustati, sia di quelli in arrivo. È una libertà che mi prendo da qualche anno, un’altalena che dondola in modo troppo irregolare, insomma un gioco pericoloso, in bilico fra le mie paure e i sentimenti di chi mi guarda, di chi impara a conoscermi e ad amarmi. So di giocarci ma faccio finta di non saperlo.

Mi convinco di non saperlo.

È bene questa distanza anche per questo: per capire a quale gioco sto giocando.
Ci vinco o ci perdo? Ci gioco?
Più volte so di staccare la presa, credo in molte occasioni. Ma di questo, non riesco ancora a darmi una colpa: non sono d’accordo con i coraggiosi che insistono a urlare sempre tutto, e che poi la questione si risolve. Non lo credo vero perché a voler scovare ogni cosa, a voler dare parola e forma ai pensieri più brutti, poi si finisce per ingigantirli, si arriva a farli vincere su quelli luminosi e questo è un gran brutto errore, peggio di “è” senza accento.
Mi sento così solo in questa stanzetta dove accolgo e respingo le persone, e so che domani non sarà più così, che troverò un altro pensiero per tenere occupata la mente.
Ma intanto continuo a comportarmi de cette façon, felice di conquiste fin troppo facili, scontate. Cristo, capisco il perché della divisa, per me in particolare: è la sicurezza di una gioia enorme, un giubbotto salvagente che mi fa piangere dal bene, dalla serenità di correre con calma.
Mi dico che dovrei avercelo sempre addosso.



Poche sono le cose che mi rendono sempre forte come la rupe, ci ritorno sorridendo al solo pensiero, una roccia che è solo mia. 

lunedì 23 settembre 2013

9cento

Non ero mai arrivato a Parigi con un treno e da solo. Penso a quanta fortuna bisogna avere per poterci arrivare, in città così grandi e profonde, in treno e da soli. Non ho alcuna urgenza, nessuna tabella: mi ritrovo a passeggiare con il mio amico senza preoccupazioni, senza donne e senza mappe.
Così ci incontriamo a Parigi e a ripensarci sembra di essere finiti dentro a uno di quei film dove succedono cose molte belle, ma dopo qualche tempo. C’è luce a Parigi, un gran sole di fine estate che già preannuncia l’autunno, un arancione che renderebbe meravigliosa anche la città più becera. Camminiamo lentamente e par hazard lungo i boulevard, ci sentiamo molto a nostro agio, con noi stessi, con la città. Ci fa ridere pensare che i nostri percorsi siano così simili e così opposti, che proprio ora ci diamo il cambio fra la grande Francia e la nostra piccola città che tanto amiamo: notre ville. Siamo felici. A Lollo piace l’idea di tornare a casa esattamente quanto lo rattrista lasciare Parigi, mi chiede se sono contento, perché sto per tornare a Grenoble.
Sono felice, e lo sai. Vorrei scriverci qualche parola e scattare qualche foto ma ancora non mi riesce, non metto a fuoco, non trovo le parole giuste: succede con le cose importanti, si arriva piano, lenti, ma si arriva. Gli dico: sono sollevato, sereno come non mai.
A lui non basta questa risposta, per lui tutto è un po’ bianco un pò nero e odia sviare: forse stavolta ha anche ragione. Mi chiede se riuscirei a vivere a Parigi. Questa domanda è più facile, perché la risposta è no: farei fatica a costruire qualcosa di mio, intimamente mio, a ricordare le cose, le facce, conoscere e amare un pò di tutto.

Ma sul serio, non hai mai letto Novecento? 

Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Loro sono 88, tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu, ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita... Se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. Ce n'è a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo, quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n'è. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità, solo a pensarla?

martedì 23 luglio 2013

Fra i bambù


Entro a ricevimento e sono sudato, per il caldo e non solo. 
È tardi: una tesi dovevo sceglierla già da tempo. Niente da fare, non riesco proprio a rispettarle queste scadenze, così sono rimasto ultimo, senza scegliere. Cacchio! Tipico di me: spudoratamente a favore dei lieto fine, sempre fiducioso nelle cose belle che arrivano in corsa, magari in extremis. Mi dicono che la professoressa è un po’ carogna, con me in realtà è cordiale, professionale. Mi dice: ci sarà da lavorare. 
Senta, voglio scrivere ancora su un autore vicentino, sì, anche se studierò lontano un anno intero, anche se non c’entra con la Francia. E poi sorrido, sorrido al pensiero di "lavorare" all’estero su uno scrittore della mia terra, su un “mio” autore, su un vicentino. Mi chiede se sono sicuro, se ha senso, alla fine dice che sì, va bene, se sono convinto si può fare.


Esco dal ricevimento e sono sudato, felice come dopo un esame. Quindi ora si può partire, è fatta. Ho finito i compiti per bene stavolta, pure dentro le scadenze: posso andare fuori, magari giocare a calcio. Prof! Un pensiero alla volta... 
Ora le montagne: prima ci porto i miei lupetti, poi ci vado a vivere un po’ di tempo.  Sono sollevato come non mai, sicuro, contento di partire e di portare con me una parte così bella di casa mia: libri di scrittori. Prof, in segreto ho scelto l'autore per questo motivo non crede? Per lasciare un filo ben legato alle immagini che mi piacciono di più. 
Non per aggrapparsi eh, giusto per sicurezza..
Che ci posso fare? Sono un romanticone. D'altronde ancora leggo le storie di Mowgli prof, dove a concludere i racconti c’è un gran personaggio, che fa da tramite, corre su e giù fra giungle diverse.



Così Mowgli si distese in mezzo all’erba lunga e pulita sul bordo del campo;
ma prima ancora che gli riuscisse di chiudere gli occhi,
un morbido naso grigio venne a sfregarglisi sotto il mento.

«Puah!..» disse Fratel Bigio «bella ricompensa per averti seguito per venti miglia. Odori di fumo di legna e bestiame.. già proprio come un uomo. 
Svegliati, fratellino; ti porto notizie»

«Stanno tutti bene nella giungla?» domandò Mowgli abbracciandolo.

«Tutti! […] Ma non ti dimenticherai che sei un lupo vero? 
Gli uomini sono soltanto uomini, fratellino, 
e le loro chiacchiere sono come le chiacchiere delle rane nello stagno. 

-«La prossima volta che scenderò qui di nuovo, 
ti aspetterò fra i bambù, al margine dei pascoli»

sabato 1 giugno 2013

troppa pioggia e poco giugno


C’è un certo gusto nel fare gli elenchi. L’elenco porta con sé un insieme di possibilità: di immaginarsi, disegnare sulla carta i pensieri, spiegare il lato bello e quello impossibile delle cose. Con Giovanni, anche lui appassionato di elenchi, passo del tempo a scrivere, a stracciare, a riscrivere fogli dove annotiamo i nomi dei calciatori. Calciatori seri, famosi. Liste ipotetiche di squadre fortissime. Ci diverte molto questo gioco. Lorenzo, che di calcio capisce gran poco, ha sentenziato: «non ci trovo il senso». Noi continuiamo a riscrivere i fogli e a leggerceli, anche adesso che siamo grandi: quando ci leggiamo, mi vengono alla mente altre cose, della Scuola.
Noi creiamo super-squadre sempre nuove: elenchi, elenchi anche questi.


Mi sfiora il pensiero che il Genio possa esaudire un certo numero di desideri, quanti voglio. Ovviamente ho già provveduto ad un elenco personale. Lo dico subito: non ho considerato la Pace nel mondo, il Lavoro e la Salute: cose troppo serie e banali, troppo richieste. Ci pensano Gandhi e Che Guevara a quello: è più corretto chiedere al Genio cose più possibili, anche per non stancarlo troppo.

Che suonino della musica a Ponte Pusterla. Perché no? Certo, non tutti i tipi di musica, solo quella lenta, da ascoltare seduti. Chi suona deve presentarsi quantomeno in abito elegante, come un saggio dei ragazzi del Conservatorio. D’altronde, è una grossa occasione per chi suona: coi mulini dietro, caspita.
Vorrei un gatto per la mia Camera Arancione: un gatto che non avesse bisogno di fare pipì, di lavarsi e di mangiare. - È possibile?
E una casa solo mia in Altopiano. Fra l’altro, io sono sulla strada giusta per arrivarci in comodità, nella giusta direzione verso le montagne. Una casa in legno, dove andare quando piove, a fare lo studioso, e portarci il gatto, gli amici, una ragazza. Un bacio. Rubare i libri dalle librerie, che non fosse reato: che si potesse.
Un corso di cucina dagli orari e dai contenuti molto flessibili.
Una super biblioteca di libri consumati e da consumare, come P. 
I libri senza un ordine.

Dai basta, ho già scritto troppo, non è mai bene esagerare.
Altrimenti, cazzo! Non funziona

domenica 19 maggio 2013

Vicentini di Città


La storia più bella, nei libri, è quella con l’Artista che si allontana da casa e poi ritorna, vede, racconta. Forse è proprio una tecnica per scrivere opere grandi. Cavolo, funziona: le parole riescono meravigliose. Cos’è avere una cultura? Credo questo: essere abili a ri-conoscere. Ri-: c’è bisogno di esperienza prima, qualche sbaglio e molti viaggi. Dopo capisci di appartenere
Non lo dico io, ma i poeti, i grandi politici, qualche cantante.

A Vicenza, piccola città, c’è una scuola di fotografia importante: Fogazzaro, Piovene, Parise. Fra loro io preferisco Gigi Meneghello, un maestro del ri-conoscere. Meneghello ha studiato nel mio stesso Liceo: mi affascina il pensiero che parole così belle le abbia immaginate dietro i miei stessi banchi, vedendo le stesse cose, tutti i giorni. Leggo Meneghello e capisco anch’io di appartenere: a un’idea, a qualcuno;
A un posto, soprattutto.
Non mi chiudo gli occhi, non è paura di guardare oltre.
È una sensazione più grande, più difficile.

Mi piace Vicenza e leggere Vicenza: perché qui ho investito grandi energie, amore, del buon tempo. Per le sue strade provo una strana sicurezza che non è abitudine, a volte è calore, perché restituisce il giusto, Vicenza, ripaga quasi sempre. Sorrido, accuso spesso Vicenza di quel Centro vuoto la sera, penso al martedì, al giovedì. Ora sono qui, a scrivere di Meneghello e di altre cose, e viene da ridere. Le serate migliori sono proprio quelle: in bici, si procede storti, Corso Palladio sempre deserto, Piazza Signori vuota e bellissima.
Che silenzio in Centro! Delle macchine puliscono i sanpietrini usando troppa acqua, è uno spreco.
Piovene scrive: «Conoscere Palladio, la Basilica, la Loggia del Capitanio e gli altri attraverso gli studi è una conoscenza imperfetta. Bisogna vederlo, a Vicenza.»
Domani, ancora, mi lameneterò dei pochi bar, della poca musica, poco tutto.
La realtà è che sono felice, sono felice a Ponte Pusterla, sul tardi, quando non c’è alcun rumore, solo l’acqua. 


Un poco mi ri-conosco anch’io, in fondo facciamo così noi vicentini: critichiamo, ci allontaniamo, lo facciamo a ragione, perché la città resta sempre nostra, ci aspetta volentieri, con l’ultimo spettacolo dell’Odeon alle 10 e 10, chissà perché. Per la festa, per il rumore, c’è sempre dell’altro: le sagre, i falò, la Spagna.

mercoledì 10 aprile 2013

Ehi Pà


Una mia amica scrive che un po’ le secca perdere. Ho letto quanto scrive col sorriso. il mio primo pensiero è stato di scrivere questo pezzo. C’entra poco con le sue beghe, e meglio così, ma la ringrazio, perché mi ha ricordato che ci sono abbonato, a quelli che perdono. Non è poi così brutto perdere: in generale ha una sua dolcezza, tutta sua.

Con mio papà ho pochi momenti e pochi argomenti di cui parlare: uno di questi, fin da quando ricordo, è il Vicenza. Quando ci vediamo, un po’ per sciogliere l’imbarazzo un po’ per abitudine, la prima frase, il nostro “buonasera”, è: -“Hai visto il goal?”- “Come si è giocato?”-. Sono frasi di sempre, di una vita. Strano, per noi.

Dopo l’ultima partita non ce lo siamo detti. Non ci siamo nemmeno detti “che brutto, che triste”: non ci siamo detti niente. Facciamo così entrambi, credo, con le cose brutte. Ci siamo guardati e abbiamo scelto di non dirlo: è brutto vedere cadere la squadra. Perché la vediamo giocare fin da bambini entrambi: amichevoli, coppe e campionato: e quasi sempre partite improponibili. Ma sempre ce la fa,il Vicenza.




Quando ho imparato ad andare allo stadio ci andavo con lo zio e con il Papà ed era bello, bellissimo. Eravamo forti e vincevamo: eravamo felici. Però non si può avere fortuna per sempre. Siamo diventati fragili e abituati a perdere. Lui non ha più voluto andare, io sì, lo stesso, anche se sapevo che vincevamo poco, che avremmo vinto poco.

Quest’anno siamo retrocessi. Perché abbiamo perso le partite, e molte più del solito, quasi tutte. E le regole dicono: si retrocede. Mi piaceva la categoria che giocavamo: appena sotto la Serie Massima, cioè il sogno di ogni calciatore, e ogni tifoso di calciatori. Una categoria dove si gioca male al calcio, ma appunto per questo: tutti possono sperare di arrivare lì, a un passo dal fare il Grande Salto.

C’è tanto schifo in questo sport, poca poesia, e spesso anche poco sport. Ma io ci trovo cose grandi. Studio a scuola secoli di storia e di letterature dove tutti leggevano e parlavano solo di tornei e di guerre fra cavalieri. Intere generazioni di uomini pazzi e ubriachi di lotte fra genti in arme, come siamo noi ora drogati del calcio: tutti potevano mettersi alla prova con una stessa cosa, o almeno raccontarsela, cantare di uno stesso gioco, ma per una propria parte.
 Peccato. Peccato che il Vicenza sia retrocesso: tifare una squadra, soprattutto se di provincia, è cosa bella e un pò poetica. Ne ho viste tante di maglie di calcio, ma quella a strisce bianche e rosse, senza dubbio, è la più bella. È una combinazione di colori perfetta: dà una luce unica ai calciatori quando il prato è bello verde, specialmente contro maglie dal colore scuro.

Non sono triste, succede di peggio nel mondo, sui giornali, per strada, ma dico solo: peccato. Perché al meteo han detto che d’ora in poi ci sarà una gran bella primavera, proprio calda. La stagione migliore per vedere le partite, per prendersi lo spritz prima dello stadio. Ed è un gran peccato che la nostra squadra sia retrocessa, andare allo stadio con quest’aria bella e sapere che non possiamo più farcela, così presto. Ma io ci vado lo stesso ho deciso, e i miei amici anche. Non siamo ultrà: la verità è che noi le vogliamo bene, alla squadra, proprio bene.

Andiamo allo stadio che poi magari ci tirano la maglia, i giocatori, prima di cambiare squadra. E noi che restiamo a vedere la squadra ancora, e ancora, magari ce la teniamo pure, la maglietta, che l’anno prossimo sarà senza i nomi. 

mercoledì 13 marzo 2013

treno super veloce


Con Marco prendo il treno che piove molto, forse da più di una settimana. Corriamo perché aspettiamo fino all’ultimo in cortile, per provare a balbettare qualcosa che è franco-veneto prima del treno. Saliamo che siamo euforici, sempre, neanche ci badiamo che siamo un po’ zuppi di pioggia perché siamo troppo impregnati delle impressioni di oggi, dei fatti di quest’oggi-qui. È tutto molto immediato, veloce e in essere. Reale. Io avrei molto da parlare di ieri: che sul tardi ero proprio su quello stesso treno lì, che l’avevo preso molto più in là, a Napoli, dove sono andato da solo, in treno, poi a piedi, eccetera. Penso a queste cose e anche lui ha dei pensieri, magari che centrano con la musica, ma poi non ce le diciamo queste cose, ci parliamo della città-qui e di questi giorni-qui che sono ciccioni, sempre più grossi di cose da vedere, da scegliere e da fare. Sono giorni che ci sentiamo tondi e molto grassi di parole in -à che si legano un po’ tutte: città-università-novità e aggiungerei anche pedissequietà, che non esiste ma che ci fa ridere entrambi. Vorrei tanto inventare mille belle parole in rima, e non solo in –à, ma non ci riesco proprio, Marco magari lui sì, è un po’ poeta e un po’ marpione, ma lo dico sottovoce: si offende e un po’ glielo invidio.

Ho avuto delle ore in treno: a pensare di scrivere qualche parola magari in rima, e magari su una città grande e generosa come Napoli, ma lì con Marco mi decido di non farlo.
Il discorso che ci facciamo è un po’ serio: ci promettiamo di non essere quelli che se la tirano, studentelli con la moleskine, o peggio ancora,gente che si nasconde per darsi un’aria da importante. Poi ci ricordiamo che però la moleskine ce l’abbiamo, anche se conveniamo che non siamo proprio dei tipi-alla-moleskine, e che via con la testa, ma non solo, anche quello lo siamo. Allora chiudiamo il discorso, parliamo di altro.


domenica 17 febbraio 2013

Bastoncini Findus per i capitani


Mai creduto troppo ai cercatori. 
Forse perché tanta avventura tutta insieme mi puzza. 
Che sia buona cosa trovare tutto, subito? Non sudare, perdere, attendere le cose. 
Trovatori ---> giocatori d’azzardo? Penso agli esploratori che ho appena finito di studiare, che hanno trovato mille e più cose giganti, meravigliose, e pensavano di cercare tutt’altro.

Un equilibrio lo si riesce infine a trovare: io sì, almeno, io l’ho modellato, rincorso pazientemente come un esploratore un po’ timido e molto goffo che nota da distante ma che c’è, anche lui, scopre e fa cose grandi. E infatti sono orgoglioso del mio esploratore preferito, lui che dà il nome alla mia scuola, mille punti: 
e sempre me lo immagino un eroe sfigato, che è dote sempre positiva. Questo navigatore l’hanno imbarcato per tenere il diario di bordo, ma poi ha riportato a casa la nave che ha fatto il primo giro del mondo.

Grande cosa, l’equilibrio. Viva, urlata serenità. Puf.
Una condizione unica, nel senso: l’unico vero stato necessario. Allora sgomberiamo, liberiamo la testa dalle cose che non servono, che sai che non servivano ma che era bello, o forse comodo, servirsene.
Avvisto le piste nuovissime, quelle che usavo erano strade scomode e alcune proprio sbagliate, infelici, ma ho sempre per le mani una cartina più aggiornata di quella prima: lo sento, sono felice.


   

 ̽come un ragazzo che non sa di stare imparando le sue lezioni.

lunedì 14 gennaio 2013

Una cosa giusta



Non resisto alla tentazione di scriverlo: quali sono quei momenti che mi danno la sensazione di stare bene, bene così, bene veramente. Li vivo quasi con fretta per la voglia di appuntarli giù, di dirli a qualcuno. 
E spiegargli che mi sento un re molte volte in una giornata, o meglio un pascià, che è una parola più strana, quasi esotica, e rende il mio essere contento quei momenti lì.

È stato scritto sul rumore della pioggia? Immagino sì, tanto, o almeno spero: che lo abbiano fatto grandi poeti, o gente con le parole brava davvero.

Io non conosco di nessuno.

Comunque mi addormento con questo spettacolo che fa la pioggia, che la sento battere a pochi passi dai miei piedi, dalla coperta, e dal libro nuovo proprio appena iniziato che sa di nuovissimo: dentro ci ho messo i biglietti di un viaggio.

Entra in camera C per fare entrare la luce , è prestissimo e forse è per questo che glielo lascio fare: perché la cosa mi piace. Succede che fuori la pioggia è diventata neve: è tutto bianco, freddo e nuovissimo. Il pensiero mi sfiora ogni volta, ogni volta: anche se poi diventa una pappetta sporca, la neve pulisce tutto sempre, e soprattutto porta dei pensieri che sono belli per forza, cose belle. E non ci credo, a quelli che in città odiano la neve per chissà quale motivo, motivi tristi mi dico, non possono pensarlo veramente: non è vero che la odiano.

Tempo di bere il thè, uscire per andare verso la mia biblioteca a piedi  -che c’è la neve- ed ecco che ritorna ad essere pioggia e che ti accorgi che è tutto grigissimo, forse la neve un po’ ha pulito, ma sicuramente non c’è più il bianco. Allora mi viene anche il pensiero che forse non ha nevicato, sono solo rincoglionito dal sonno e in generale.

Tah! Alla fermata del bus (la pioggia non è bella come la neve, per camminare) ci vedo una macchina arrivare, col tetto bianchissimo di neve. Fuck you! Lo sapevo. E chissà da dove veniva quell’auto: dalla montagna? O da qualche paesetto? Penso a quello che si chiama Laghi perché mi fa ridere- O da Verona? 

Credo sia bella Verona.

Comunque ci sono molte cose importanti cavolo. 
Non solo neve, pioggia, miele amore, cose così.
Nessuna di queste la sento decisiva, ma importante, e necessaria, porca vacca, sì.
Mi piace questo esercizio: di segnarmi le cose belle.
Me le segno con la certezza di aver visto una cosa giusta.

C mi sveglia e io so di indovinare le parole giuste, quali potrei o non potrei usare, e che alcune già le ho dette.