domenica 31 dicembre 2017

2018, avventura!

Auguri! Come per altre occorrenze (Natale, compleanni, matrimoni) ci si scambia questa parola (anche) nella speranza di crescere o migliorarci, all'inizio di qualcosa. 


Ho comprato dei libri di avventura. Sì, persino la tranquilla Vicenza può portarci in paesi meravigliosi ed esotici, selvaggi e inospitali. Ho usato l’inverno (il gatto, le coperte, il freddo fuori) per cercare storie di Jack London e di Corto Maltese. Le loro vite sono avventura vera, quella che si può trovare anche in un racconto, reale quanto una notte in bivacco, un fuoco, una ciaspolata.

Vicenza cosa c’entra?

C’è un vicentino, uno scrittore poco conosciuto vissuto nel primo Novecento, che abitava nei pressi di una bellissima Villa nascosta alle porte di Vicenza: Ca’ Impenta. C’è ancora, ma è chiusa, celata ad occhi troppo impegnati ad arrivare al vicino centro commerciale Palladio. Durante l'insurrezione di Vicenza, nel 1848, in una sala di questa villa (quartiere generale austriaco) fu firmata la resa della città tra i generali di Radetzky e quelli di Durando.

Gian Dauli è il nome di questo vicentino. Un viaggiatore, come i personaggi citati prima: in Inghilterra, dove si sprovincializza, quindi in Francia, Belgio, Germania, Spagna. A Roma apre tipografie, riviste. Si arruola, è inviato ad Asiago, dove perde l’orecchio nella battaglia dell’Ortigara. Antifascista convinto, come altri vicentini dal grande 💗 venuti prima e dopo di lui. I suoi scritti sono censurati. Fa tradurre e pubblicare autori da tutto il mondo, al tempo veri sconosciuti, come Conrad, Yeats, T. Mann. Molti dei suoi titoli vedranno luce dopo la guerra, come Viaggio al termine della notte di Celine

Un “ribelle”, non tanto per il suo atteggiamento durante il Ventennio, quanto per aver scelto l’avventura, scrivendo e traducendo storie che venivano direttamente dal disordine e dalla fame. Internazionale e vicentino, provinciale e creativo, quel compromesso che – ne sono convinto – è possibile, una via di mezzo che può diventare una ricchezza spendibile per gli altri, come in una città (che ne ha bisogno, anche nel prossimo 2018).

Sto leggendo un libro di London non molto conosciuto, nella sua prima edizione, tradotta da questo vicentino atipico, proveniente da quella villa speciale. Forse, solo un traduttore con una certa biografia poteva interpretare uno scrittore dalla vita incredibile quanto i suoi romanzi. London fu inscatolatore di lattine, razziatore di ostriche, poliziotto dei mari, marinaio e cacciatore di foche, vagabondo, scaricatore di porto, cercatore d’oro, attivista politico: il tutto condito da quella fiammella di idealismo che lo ha portato ad aderire al socialismo, e a marciare su Washington con un esercito di disoccupati ("l'esercito industriale": la "Kelly's Army") negli ultimi anni dell'800.

Jerry delle Isole è l'ultimo romanzo che ha pubblicato in vita. Un terrier irlandese è il protagonista, ancora una volta un cane. Siamo nel Pacifico del Sud a inizio ’900, un avventuroso arcipelago con acque solcate da navi impegnate nella tratta dei neri, e isole abitate da cannibali e cacciatori di teste. Due universi: quello umano, pieno di faide e razzismo; e quello canino, dominato dall'amore, dalla fedeltà e dal coraggio. Un'avventura molto attuale quindi.

Le acque del Pacifico non sono nuove per London. A me, non possono che ricordare l’amicizia che lo lega a Corto Maltese. Il marinaio vagabondo più misterioso e affascinante di sempre. Amici da tempo, si sono già incontrati in avventure immaginifiche. Nella classifica dei cento libri più importanti del Novecento, i capolavori di Pratt e London, Una Ballata del Mare Salato e Martin Eden, si trovano uno dietro l'altro. Che sia un caso? 

Dauli, London, Hugo Pratt… persone e scrittori che vivono in prima persona l’avventura che poi mettono in scena nei loro romanzi. Ecco l’augurio che mi rivolgo, e che giro ai vicentini di città e non: di migliorarci, crescere. Un augurio per un 2018 grandioso, all'avventura, senza perdere la normalità ma nemmeno l'esotismo, da qualunque angolo di mondo noi vogliamo vivere una favola.

“Sarebbe bello vivere in una favola”
“Ah, sì, sì… tu vivi continuamente nelle favole, solamente non te ne accorgi più. Quando uno adulto entra nel mondo delle fiabe non riesce più a uscirne. Non lo sapevi?" 
(Hugo Pratt, Corto Maltese, "Corte Sconta detta Arcana", gennaio 1974) 

domenica 24 dicembre 2017

La Luce di Vicenza

Vigilia di Natale. Scrivo poche parole: non aggiungo nulla alla magia del momento e niente di più a chi, sempre con le parole, ha descritto Vicenza nella forma più alta. C'è un articolo (l'ho trovato studiando per la mia tesi): ha quasi cinquant'anni ed è stato pubblicato a pagina 3, una domenica del 1961, su La Stampa di Torino. L'autore è Guido Piovene, che quel giorno parlava agli italiani per spiegare cosa provasse passeggiando per i monti di Vicenza in una mattina di sole come questa, con una luce particolarmente bianca e gli altipiani che si lasciano vedere, quasi toccare. Mi scalda il cuore: anche per me queste mattine bianche del Veneto, a vista dei monti, "preparano quasi sempre serate altrettanto incredibili”.

Anche io ho camminato. Nel mio piccolo ritrovo tutto: le stesse sensazioni e la stessa bellezza. Nel mio piccolo, c’è la messa di Natale, il presepe di papà al Duomo, dove i vicentini accorrono a mezzanotte senza sapere bene il perché, o quando abbiano iniziato a farlo. Le luci mi ricordano quelle lanterne rosse di qualche anno fa, il concerto dell’Osteria, gli amici nuovi e vecchi con i quali "uscire nella strada per il gusto d'uscire, tutti allegri, sfregandosi le mani e guardando in aria”, giorni sereni senza frenesia e pensieri negativi.

Piovene si domanda a cosa è dovuta la nostra idea di «bello» e di «brutto». E forse ha ragione: ci immaginiamo un paesaggio che ha poco di naturale, di fisico e di concreto. È piuttosto uno scenario fuori dal tempo, “con le sue tinte più pittoriche che naturali”. Casa..

Buon Natale a tutti noi.  🙌😼

"Due giorni passati a Vicenza. Ho la sorpresa di scoprire che alcune sensazioni, anche molto lontane, non sono così seducenti solamente perché manipolate, abbellite dalla memoria. O perché eravamo giovani, o per altri motivi d'indole soggettiva. Mi accorgo che esse corrispondono a verità di fatto; e per questo non vivono solo dentro di me, come fantasie o come ombre, di una vita illusoria, ma è possibile recuperarle come cose attuali.

Certe straordinarie mattine nella fascia del Veneto che corre lungo le montagne, potevo per esempio crederle quasi un'invenzione mia. Le ricordavo infatti incredibilmente bianche, incredibilmente azzurre; con una luce così bianca che dava per se stessa una esaltazione vitale, senza però nulla di rigido, una fusione assolutamente felice di bianchezza e di morbidezza. Ed intonata ad essa un'aria leggera dava un'euforia fisica, senza cui ritengo impossibile una vera emozione estetica, la quale esige un perfetto equilibrio tra la natura e noi, l'assenza di qualsiasi incomodo e di qualsiasi stonatura. 

Ricordavo i vecchi ed i giovani che uscivano nella strada per il gusto d'uscire, tutti allegri, sfregandosi le mani e guardando in aria; pensavo che fosse un sogno. Ecco invece, proprio una di quelle mattine quali non ne ho viste di simili in nessuna parte del mondo. Quel bianco assoluto ed affettuoso, che presuppone e contiene il colore, e nemmeno una nuvola. Nessun disturbo dalle cose, nessun particolare errato, io che di fronte a quasi tutto, opera di natura o d'arte, avverto sempre un particolare che stride e mi guasta il piacere.

Queste mattine bianche del Veneto a vista dei monti preparano quasi sempre serate altrettanto incredibili: tinte inconsuete del cielo, lune che sembrano mai viste, paesaggi d'astri che piovono sulla pianura. Sono veramente convinto che le colline venete fronteggianti i monti di là d'un tratto di pianura, con la più vasta pianura verso il mare alle spalle, siano al centro di qualche straordinaria e fortuita combinazione naturale che non si riproduce altrove, quasi di un piccolo mistero di vicende atmosferiche. E' forse un incontro di luci, quelle alpine e quelle marine, che vi 'si scontrano e raccolgono come le luci in un diamante. Certo che anche il più piccolo arbusto prende colori delicati, preziosi e soprattutto sorprendenti.

Penso che i nostri giudizi di bello e di brutto abbiano un fondamento empirico. Troviamo bello tutto ciò che abbiamo associato per la prima volta a un'idea di bellezza. Per quanto mi riguarda, qualunque cosa io dica o scriva, bello è ciò che assomiglia in qualche modo ad una di queste mattine e ad una passeggiata su questi colli. Non è una teoria di moda, ma tanto peggio per la moda, tanto peggio per me. Naturalmente dico assomigliare nel significato più largo. Può assomigliarvi un paesaggio e lo stile d'un libro, una persona, un sentimento, una dottrina filosofica o un'idea morale.

A volte, la scossa della somiglianza mi sorprende viaggiando nei luoghi più impensati, nei quali dovrei essere più spaesato, e senza il minimo motivo di cui possa rendermi conto. Per esempio, l'anno passato, l'ho provata presso Bukara, sul margine di quel deserto d'un colore grigiastro sotto un cielo di seta. Sarà stati forse una pianta, forse un'affinità di luci, ma mi è parso d'un tratto di trovarmi in un cerchio dove il Veneto scaturiva come una corrente che avesse attraversato metà del mondo sotto terra. Mi prese una fantasia stravagante, che se avessi guardato bene tra quella gente in turbante e vestaglia, avrei scoperto visi a me conosciuti, dei luoghi dove sono nato, forse qualcuno del mio sangue, morto per me da anni, e invece trasmigrato a vivere in quell'angolo d'Asia dove mi passava accanto, e non mi riconosceva."


✏ Guido Piovene , La luce di Vicenza
«La Stampa», domenica  12 febbraio 1961

domenica 10 dicembre 2017

Riportando tutto a casa


Oggi che nevica mi ricapita fra le mani il CD che ho consumato più di ogni altro: Riportando tutto a casa. Perché? Forse per via del Canto di Natale, forse per il fatto che trovo sempre molto attuali quelle canzoni che, se cresci davvero, ascolti al liceo ma dopo non più. “Dopo” è meglio musica più elaborata, possibilmente intimistica e magari straniera. Ma io sono rimasto indietro (o fermo?) con i gusti e con gli anni. Ci sono dischi che non riesco a fare finta di non ascoltare più.

È un cd “impegnato”, nella misura che si rivolge a quel pubblico giovane orientato dalla giovane età, con quell’aggiunta di fate e storielle che – lo ammetto – rendono i temi un po’ superati.  

Chi se ne frega. Questo ultimo periodo di Primarie è stato appassionante. Personalmente, non è stata una “campagna” che mi ha coinvolto giorno e notte, con passione furente e telefonate continue, ma nel mio piccolo sì, sono stato coinvolto.

Parlando con i miei amici ho subito intuito che il tema delle Primarie non scaldasse più di tanto. Non parlo dei tanti (troppi) già coinvolti. Mi interessava parlare con altri (associazioni, famiglie, amici). A pochi fregava granché, a dire il vero. Eppure, con il passare del tempo – e con l’aumento dell'attenzione mediatica, i fiumi di storytelling nei social, parole scambiate nello spogliatoio del calcetto - ho come pensato che l’importanza del voto fosse cresciuta. E così è stato, i numeri delle Primarie sono stati impressionanti.

Incredibili, poi, i numeri dei giovani. I non-numeri. Domenica scorsa speravo di sbagliarmi, mi dicevo che era un’impressione dovuta a quel seggio, dal cercare continuamente nell’elenco signore classe ’30, ’40.. (che poi, ci arriveranno a votare a maggio?)

Sono andato a guardare meglio. Boom: la percentuale di votanti, per i ragazzi fino ai 20 anni, è stata del 2%. Dell’8%, fra i 20 e i 30 anni (cioè la medesima degli ottanta-novantenni). I picchi di voto sono quelli delle fasce che vanno dai 60 agli 80 anni. Come dire, questa giornata non ha toccato minimamente le persone sotto i 30 anni.

Si potrebbe obiettare: “questo dato è normale”, “è un fenomeno che segue i dati nazionali ed europei”, “devi guardare il tipo di consultazione”, “ecco, quelli del bicchiere mezzo vuoto”… No! Questa cosa non può andarci bene. Non tanto perché il mio candidato ha perso, quanto perché quella parte di città, ad oggi, non è consultabile, conosciuta. Non si sa come parlarci. Tutto qua.

Abbiamo peccato a non pensare a loro, a non aver comunicato con loro. Mi ci metto dentro in quel “noi” anche se non c’entro nulla coi tre candidati, anche se non era quello lo strumento per intercettarli, quei “numeri”. Però pecchiamo ad aspettare che arrivino loro da noi, a preparare loro dei moduli, ad invitarli ai dibattiti o ai giri in quartiere. Pecchiamo a pensare che una buona campagna sui social equivalga a comunicare e coinvolgere. Sono molti (purtroppo) quelli che considerano il rifiuto di qualsiasi proposta esistente una modalità per esprimere insoddisfazione nei confronti dell’offerta politica. “Non voto, non è il mio partito, nessuna delle proposte mi rappresenta”. Frase che ho sentito fino alla nausea.  

Eviterei di analizzare questo 2 e 8% come protesta contro BPVI, SPV, PFAS, BB e via dicendo. Il rifiuto (“è del PD”, “è troppo giovane”, è troppo vecchio”) intrappola gli uni e gli altri in un ciclo di abbandono e cinismo, un circolo che diventa vizioso nel momento in cui i più anziani (e domenica si è visto) hanno una maggiore propensione al voto e modellano così le politiche di tutti.  I giovani, vedendo un sistema che gli offre poco, tendono ancora di più a tenersi fuori. Ma è andata così domenica scorsa?

Una cosa è certa: le campagne, viste da queste fasce di età, sono iperrealiste e autoreferenziali. Ma come fare? Perché non coinvolgendo queste fasce vince chi è più bravo a portare persone, non certo chi ha più idee, preferenze decise, metodi - valori.

Quel 10% è troppo poco, perché da lì arrivano persone abituate a plasmare il mondo sulle proprie preferenze, personalizzando, ad esempio, la musica che ascoltano, le notizie che consumano. Esco dalle percentuali perché non mi competono. 

A me adolescente è piaciuto tanto quel CD. Già dalla copertina. Mi piace quel  rivendicare un’identità meticcia, fatta di storielle, Irlanda, Resistenza, strumenti musicali, kefiah, giornali, libri, sciarpe di calcio, qualche bottiglia, cartine. Ho provato a riprodurre la copertina centrandola su di me. È venuto fuori questo imbarazzante risultato:


Ho pensato: quante persone pubblicherebbero un album simile al mio? (quasi nessuno, probabilmente 😅). Quali copertine assemblerebbero allora? Non lo so. Certo è che la questione della rappresentanza continua a intrigarmi, in senso positivo, mi tiene sveglio e voglioso di urlare che per questo 90% non si può parlare solo di amministrare bene ed evitare che le destre ritornino. Queste argomentazioni indeboliscono la democrazia e fanno sì che le persone non votino (che è esattamente spostare il baricentro politico a destra). La formula migliore, evidentemente, è  spostare l'attenzione verso ciò che accade al di fuori della istituzioni; altrimenti si crea un vuoto ancora più grande tra la vita reale e quella politica. Io, più di quelli che votano a destra o M5S, Possamai o Dalla Rosa, temo quelli che non votano più. E ho una gran voglia di stare a vedere le cose migliorare, da qui alle prossime elezioni.


domenica 26 novembre 2017

The Third Way → Le scelte ponderate


Ci ho pensato se scrivere questo post, pensavo alla facce di alcuni amici a leggere certe parole. Penso a quelle facce anche adesso. Sono stanco di seguire certe non-discussioni, soprattutto virtuali, certe non-prese di posizione. Allora provo a dire la mia, provo senza retorica. 

Buridano è un filosofo francese del Medioevo. Si è inventato la storia di un asino, il quale, di fronte a due secchi, uno di acqua e uno di avena, posti alla stessa distanza da sé, rimane immobile senza scegliere nessuno dei due, proprio perché li avrebbe voluti entrambi, ma non sapendo e volendo decidere, alla fine muore di stenti. 


Cosa sto dicendo? Che le elezioni primarie della città saranno una cosa importante, anche se molti non ne faranno parte o non ne verranno toccati. Eppure è raro, infrequente, avere a Vicenza un'occasione così ghiotta per dare un verso o un senso al nostro schieramento politico. Anche i meno informati sanno infatti che le persone, le dinamiche, gli argomenti che riguardano il futuro della città sono destinati a cambiare radicalmente. 

Ora, lasciamo da parte la solita retorica del diritto-dovere, dell'essere protagonisti, anche perché non credo proprio che le votazioni siano l'unico strumento per cambiare le cose (si veda lo scorso referendum). Soprattutto non credo che gli strumenti che i cittadini hanno a disposizione debbano necessariamente passare per la delega, per l'approvazione di/degli altri o per il riscontro pubblico: un giorno vorrei parlare, ad esempio, dell'insopportabile retorica vicentina che ci ha invaso dai tempi degli "angeli del fango". Quando la smetteremo di usare questi linguaggi per normali atteggiamenti di civile convivenza?

Tornando al dunque, è davvero stupido pensare che la consultazione del 3 dicembre non sia importante, che votare uno qualsiasi dei 3 candidati cambi poco. Queste parole sono fastidiose. Qui non si parla di "sindaco di tutti", finalmente. Si parla del sindaco della "nostra" parte, in una Regione dove siamo l'assoluta minoranza politica e culturale. Eppure in città il centrosinistra governa da dieci anni. Quindi caliamoci in questa realtà, che ha la fortuna di non vedere ronde, coprifuoco in centro, ordinanze, militarizzazione, scontro sociale. Non è tutto oro ciò che luccica ma dobbiamo capire che in questo scenario le Primarie sono un'opportunità.


Non-agire, come l'asino di Buridano, è una tentazione capibile. Significa esitare tra due scelte, paura di sprecare fiducia ed energie, e questo si traduce nel non prendere posizione, perché un candidato o l'altro, andare o non andare, crederci o mandare a fanculo, sono binomi difficili da affrontare che a volte condividono sentimenti simili. La mia associazione, Vicenza Capoluogo, ha rischiato. Ha provato a spezzare la storia dell'asino. Io c'ero. Abbiamo scelto di appoggiare qualcun altro, addirittura un giovane - e un giovane iscritto a un Partito. Noi abbiamo capito che era la scelta più giusta.


La scelta migliore c'è. Ma anche se così non fosse, non è fondamentale quantomeno provare a cercare la soluzione che non ci immobilizzi? Non ha senso continuare verso nuove possibili varianti? Abdicando a fare la scelta migliore in queste Primarie, può capitare che tutte le opzioni perdano di senso e così rimaniamo senza niente. L'indecisione, infatti, è la migliore ladra di opportunità.

L'opportunità oggi è Giacomo Possamai. Si può dire che non lo si vota per protesta verso i partiti, verso il PD, la Tav, Borgo Berga... ma non sarà l'ennesima scelta di non scegliere a portare lontano, anzi. É una riflessione troppo comoda, che ci abitua a negare "la migliore città possibile" e le scelte democratiche. Questo non va bene. Si devono cambiare questi giochi, questi partiti, questi politici, non fare di tutta l'erba un fascio. 

Altro errore è il trito e ritrito "sono tutti uguali". Sbagliato. Sostenere Bulgarini, Possamai o Dalla Rosa vuol dire fare una scelta invece che un'altra. Sono scelte diverse e precise, perché sono modi di fare precisamente diversi. Anche concretezza e realismo dovrebbero spingerci a votare

Il candidato Possamai mi sembra quello più convincente. Sinceramente, non sapevo cosa pensare della sua candidatura. Forse ho detto: "ma dai!"; conosco Giacomo dal Liceo, con lui ho condiviso qualche momento di politica giovanile, ma quella piattaforma, dove lui si spende da sempre, non era la mia. Credo che chiunque lo abbia ascoltato queste settimane sia stato in grado di sgonfiare da solo il bluff su incompetenza e giovane età. Fra le critiche, questa è la meno sensata: la capacità di manovra e la conoscenza degli organismi istituzionali fanno di lui un amministratore serio, anche troppo. 


Io penso che infastidisca che il migliore candidato possa essere un giovane esponente del PD. Un "politicante" di mestiere. Ho già spiegato che capisco perfettamente i motivi di questa freddezza. Inoltre, il suo essere amico di tutti e persona corretta non lo sta certo aiutando. Ma anche qui, rischiamo, come dice Zagrebelsky di essere come "chi guarda da un lato solo e non vuole sapere dell'esistenza d'altri lati ch'egli per il momento non vede. É un individuo pericoloso, chi si lascia convincere dalle apparenze, poiché non sa scorgere ciò che le ombre nascondono".


Ho guardato da tutti i lati e ho trovato alcune cose al netto davvero positive


Numero 1.  Possamai ha agito con un suo stile. A volte mi son detto: "dì qualcosa di sinistra!", "sii più incazzato!". Ma se guardiamo al cuore delle cose, osserviamo i suoi atteggiamenti, è l'unico dei tre candidati che ha sposato un atteggiamento di vero rispetto per la Coalizione e per il Ruolo al quale si candida. La cosa che mi è piaciuta di più, lavorandoci con Vicenza Capoluogo, è stato il suo passo indietro. Ci ha detto: "da solo non so fare tutto, ma insieme possiamo farlo bene". Questo per me conta molto: fare le cose con il giusto stile, credere nella città senza dietrologie.


Numero 2. Possamai non decide da solo. Questo è evidente. É quindi una grande opportunità, soprattutto per i giovani (almeno una parte), per avvicinarsi alla città, all'amministrazione e all'impegno civico. Non è un uomo solo al comando, come gli altri due, ma crede nell'idea di squadra. Gli uomini soli al comando mi spaventano. 

Numero 3. Personalmente, mi premeva ascoltare i temi legati alla Partecipazione e alla Cultura. Ecco, più che le proposte in sé (che poi tra il dire e il fare...) è stato il metodo da tenere a sembrarmi originale, bello. Giacomo mi pare davvero aperto al dialogo: mi piace che consideri il Comune un "regista" che mette insieme realtà diverse e incoraggia proposte dal basso. Io questo l'ho visto, nel suo spendersi dietro le linee a Laghetto. O quando ci ha incontrato come capi scout. La sua speranza è andare oltre a strumenti come il bilancio partecipativo, per coinvolgere la città. Ci si è adoperati concretamente per costruire nuovi centri di quartiere (conoscete Lagorà?), centri che possano offrire un servizio alla comunità e non semplici sedi da affittare ad associazioni e gruppi di turno. Si è studiato (basandoci su chi l'ha già applicato, come Bologna) il Regolamento di condivisione dei beni comuni, basato sull'idea che più soggetti possano condividere l'uso del medesimo bene pur non essendone proprietari, per prendersi cura in modo organizzato dell'ambiente, della cultura e della memoria.




L'incontro con Guido Beltramini (la sua mostra sull'Ariosto un ca-po-la-vo-ro) e il Sindaco di Ferrara è stato un bel segnale per costruire un nuovo modello culturale, coinvolgendo la città sul proprio patrimonio con le scuole, in una continuità di proposte culturali finalizzate a rilanciare le eccellenze della città, alternando in modo continuato il piccolo e il grande evento, coinvolgendo università e startup giovanili. A cominciare dal tesoro nascosto che è la Biblioteca Bertoliana. 


Ci sarebbero altre cose da dire su Possamai candidato, probabilmente anche negative, ma  queste sono quelle che sento più decisive, per la mia scelta. Avrò già scritto molte inesattezze, da vero asino. Certo è che il paradosso di Buridano può dar spazio a molteplici letture, ma la cosa sicura è che se l'asino alla fine muore, muore perché non sa scegliere, o preferisce non scegliere. 




Conoscete quella frivola storiella
di un certo asino di cui si discute a scuola?

domenica 19 novembre 2017

Banditi (ovvero: fare parte di una banda)



Ho vissuto alcuni giorni di #BellaPolitica spendendo del buon tempo. Mi piace stare in mezzo a tanta gente, soprattutto se condividiamo gli stessi interessi, dal calcio alla montagna, dallo scoutismo agli spritz, fino alla politica in senso stretto. Non resisto alla tentazione di mescolare questi momenti e rielaborarli, intrecciarli un po' a caso (a essere onesti), condendoli poi con idee rubate ai miei libri preferiti, quelli che ho sempre in testa. Non sopporto l'idea di separare in compartimenti stagni le sensazioni che mi arrivano dalle passioni, dal volontariato, dal lavoro, dalla politica. La cosa negativa di questo modo di fare è la tendenza a diventare superficiali. La cosa positiva, invece, è il mettere insieme i vari momenti - a riunione, a scuola, allo stadio - parlando dell'una o dell'altra cosa. Siamo abituati a non confondere le sfere, che ognuno resti nella sua comfort zone. Forse ci prendiamo troppo sul serio. 

Nella scorsa Assemblea scout, per esempio, si è parlato di territorio, di farsi viandanti, di uscire noi per primi verso quelle comunità di persone che si sentono sole e minacciate, di smetterla con un atteggiamento psicologico di superiorità e chiusura verso altre associazioni, altri mondi. Si è parlato di giovani, che poi è il fulcro di quello che facciamo. 

È un tema che mi pulsa dentro. Da qualche estate condivido i passi di alcuni giovani da tutta Italia. È una sfida pazzesca camminare con loro, provare a definire e indirizzare l'energia per trovare un posto nel mondo che ci prenda davvero il cuore, e non una delle tante cause che non durano, che non ci dicono. 


La forza di questi campi itineranti nel vicentino (che bello camminare per la mia terra con ragazzi da tutta Italia!) è che sono loro ad insegnare a noi. Li osservo e penso all'incapacità degli adulti di entrare dentro le sofferenze dei giovani, l'incapacità di superare la retorica dei giovani come "categoria"; penso allo strumento dell'"Assessorato alle Politiche Giovanili", come se i ragazzi avessero bisogno di qualcuno che si spendesse per loro, come se non fossero in grado di interloquire loro stessi con gli adulti e con il territorio. Se i ragazzi possono, allora perché ci arrendiamo ad una società in mano agli adulti?

Ho letto da poco un libro che mi ha sconvolto: Quello che dovete sapere di me

Leggendolo ho provato emozioni contrastanti: ammirazione, immedesimazione, invidia, rabbia. Il libro è nato da una ricerca che ha coinvolto giovani fra i 16 e i 21 anni, che si raccontano in forma anonima, parlano di come vedono il mondo, la politica, il futuro. Un libro da regalare soprattutto a chi presume di sapere come va il mondo, ai rappresentanti di una società che chiede voti ma non esige più riti di passaggio, tranne quello tutto apparenza della laurea e del voto scolastico. Nel libro i ragazzi vanno oltre la famiglia, oltre il confine del tempo, del quartiere, della parrocchia. I capitoli del libro sono: avere paura, altalenare, cercare se stessi, credere, amare, imparare, avere coraggio, visioni. Tutta alta politica.

L'ultima lettera, all'ultima riga, dice: "io voglio fare qualcosa".

Chi ha lavorato con questi ragazzi sa bene che questo non è un piagnisteo inconcludente, fine a se stesso, ma la voce e la volontà di una generazione che viene smorzata in modo sistematico proprio dal mondo adulto nel quale sta per entrare. Una constatazione che la visione degli adulti è povera.

Continuo a chiedermi: i ragazzi dove vanno a "fare qualcosa"? Ci facciamo carico del loro peso specifico, delle loro energie, dei lori sogni? Non è forse questa l'unica cosa che conta davvero, che dovrebbe essere in cima all'agenda politica, piuttosto che temi come la sicurezza o il dialogo con categorie sociali non in grado di incidere nel mondo, nelle città, nei tanti quartieri dove si fanno i giri in bici senza incontrare un giovane che sia uno? 

Perchè i ragazzi nel 2017 chiedono ancora in massa lo scoutismo? No, non è dello scoutismo che voglio parlare, pur essendone dentro fino ai capelli. É la domanda di scoutismo che mi interroga. AGESCI poi è uno strumento, né il migliore né l'unico. 

Fanno qualcosa le centinaia di ragazzi che si ritrovano la sera in Piazza delle Erbe? E le fronde di studenti all'uscita dalla scuola? Le migliaia che giocano a pallavolo, danza, rugby?Certamente sì. Chi sono, come impiegano la loro energia positiva, di gran lunga la più luminosa in una città, se non c'è qualcosa in cui possano riconoscersi? Nelle lettere del libro, una cosa è ancora uguale per tutti: la visione del proprio ruolo. Vogliono ancora sfidare il mondo, chiederne uno nuovo rispetto a quello che hanno, dove ci sia molto rispetto per la natura e per le relazioni, pochissimo per la competizione. 

Con una delegazioni di Capi scout abbiamo incontrato, lontano dalle foto e dagli slogan, un candidato al ruolo di Sindaco. Durante l'incontro, abbiamo parlato di Carta del Coraggio e abbiamo letto i sogni di f., 18 anni. Non so quanto sia rimasto di quelle parole dentro di lui, ma è stato bello leggerla insieme, vedere gli occhi di un giovane amministratore incrociarsi con quelli di una giovane scolta. Sentire, in un dibattito politico, la voce di una ragazza che ha scelto un'associazione per diventare una buona cittadina attiva. É una voce che deve uscire dall'Associazione, una voce che il mondo politico deve poter usare come forza-lavoro, come strumento per risolvere i problemi.

Il passo che deve compiere la mia generazione, invece, è superare la dinamica del "gruppo di studentelli scrupolosi e malcontenti". Non sono parole né attuali né mie, ma di Luigi Meneghello, e riferite a 70 anni fa. 

Abbiamo bisogno di affidarci a luoghi e persone credibili che ci possano fare da "maestri". Oggi ci sono cantanti, scrittori, politici che occupano il ruolo sociale una volta riservato ai maestri: uomini e donne brand capaci di influenzare le vite di molti seguaci, tifosi, followers.. ma quanto servirebbero invece veri maestri di vita, da ricercare nelle associazioni, nei gruppi di amici veri, non quelli sempre più votati al culto dell'"ignoranza" sbandierata come vanto, nel mito della "serata", del machismo delle squadre di calcio. Maestri, cioè persone che danno l'esempio, non che insegnano.

Dobbiamo cercare i nostri maestri sotto casa, cercarli non lontano da noi. Proprio come fecero Meneghello e quei ragazzi vicentini  saliti in montagna nell'autunno del 1943. Con una guida cercata e trovata nel mondo della scuola e poi trasferitasi a livello di vita, nella piazza del paese e quindi in Altopiano.

"Questa malga però era singolarmente vuota e nuda. Antonio e gli inglesi si aggiravano di qua e di là con aria quieta e circospetta, rosicchiando quello che avevano portato, e chiacchierando un po'; notai che parlavano tutti sottovoce. Io e Nello stavamo ad ascoltarli. Così dev'essere stato per i primi cristiani quando gli arrivava un apostolo in casa. Antonio non era solo un uomo autorevole, dieci anni più vecchio di noi: era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo. Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studentelli alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutta un'altra cosa. Per quest'uomo passava la sola tradizione alla quale si poteva senza arrossire dare il nome di italiana; Antonio era un "italiano" in un senso in cui nessun altro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. In fondo era proprio per questo che eravamo in giro per le montagne; facevamo i fuorilegge per Rosselli, Salvemini, Gobetti, Gramsci; per Toni Giurolo. Ora tutto appariva semplice e chiaro. Sospiravamo di soddisfazione perchè era arrivato Toni, e anche nelle rocce, nel bosco, pareva che se ne vedesse un segnale."

L'8 settembre del 1943 porta a Vicenza sbandamento e incertezze. L'armistizio, la fuga del re, il crollo dell'esercito. Anche in quel caso, c'era bisogno di nuovi maestri, di decidere ognuno per conto proprio. Quei ragazzi, anche senza una vera coscienza politica, hanno scelto di non attendere gli eventi. Li spingeva lo stesso ribellismo, tipico dei vent'anni, che trovo nelle lettere di Quello che dovete sapere di me: l'aspirazione a un cambiamento, la consapevolezza di stare dalla parte giusta, una serie di incontri decisivi con i tanti "piccoli maestri" che nel percorso ci aiutano a diventare più consapevoli. Meneghello la definisce "un'Italia vispa, caotica, giovanile, vitale, generosa, un po'casinista". 

Fare parte di una banda (-appartenere): che sia questo il nostro modo per incidere? Io lo credo. Che sia AGESCI, che sia una compagnia teatrale, un gruppo di studio, un comitato politico o un club di cucito, possiamo diventare noi una banda? Non c'è libretto di istruzione, penso si debba partire dal contesto dove si è inseriti ora - guardarsi - e dopo qualche birra stilare a mo' di elenco una serie di valori di fondo; o i libri e la musica che ci piacciono. Poi decidere come sfidare il mondo, quando e dove trovarsi per farlo: sennò diventa l'ennesimo gruppo whatsapp destinato a morire il giorno dopo la festa. 

Uso proprio le parole di quell'autunno 1943, perché le trovo tanto mie per questo autunno 2017: ora che "gli istituti" non esistono più, proprio come allora, non possiamo rifarli noi, di sana pianta?

"In tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, sbandati fraternizzavano con in nuovi renitenti, le famiglie incoraggiavano. c'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni. Tutto era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più, li avremmo potuti rifare noi, di sana pianta; era ora"


Mettiamo su una banda?


martedì 31 ottobre 2017

#Primarie, 👍e 💗


Mi incuriosisce molto ascoltare i "candidati Sindaco" che stanno concorrendo alle Primarie: cos'hanno da dire a quel popolo del Centro-Sinistra che - senza dubbio - è il riferimento politico e culturale di tante persone, anche se non si dice a gran voce, in una città e in una regione dove non paga pendere troppo da una parte. 

Non entro nel merito di queste Primarie perchè:
  • Non sono in grado di farlo
  • Sono di parte
  • Finora si è parlato più di persone, di slogan, "team di lavoro", che di programma, idee
Provo, semmai, a scrivere un tema di scuola: i giovani e la politica. Senza avere i "documenti" e le competenze per farlo, cadrò sicuramente nel moralistico e nello scontato. Ma ho bisogno di rispondere a delle domande che non hanno nulla di provocatorio.

Sono:
  1. Come vivono i giovani l'impegno politico?
  2. Un giovane è rappresentato?
  3. Un giovane cosa vede in questa consultazione?
Domande che non ho l'arroganza di riuscire a rispondere.


Per la domanda 1, come nei più classici compiti per casa, ho cercato lumi in Internet. Ho letto gli articoli di Diamanti e altri, le solite risposte. Una mi convince più di altre: la reale precarietà del vivere per un giovane di oggi, che porta a un naturale disinteresse verso "l'impegno politico". Non perché non ci sia voglia - quindi - ma perché si è andati troppo oltre, troppo in là con questa generazione, che si sente privata delle proprie speranze, della capacità di costruirsi il proprio futuro. Effettivamente, con simili premesse, è difficile avere fiducia "in altri", negli altri. 

La domanda 2 non è una domanda, è una risposta che mi sono già dato. Difficile che i giovani si sentano rappresentati da liste, programmi elettorali, movimenti, sindacati. Mi sbaglierò, ma credo che manchi proprio la voglia di trovare nuovi rappresentanti e spazi di politica rappresentativa, per i ragazzi di oggi, anche dove ci siano persone o associazioni che meritano davvero. Questo perché è troppo forte la sensazione di "non poter fare la differenza", di essere usati o tirati per la giacchetta. 
Non è disimpegno, non è anti-politica. Si è solo raggiunta  la consapevolezza che la politica - quella politica - sia una piattaforma, una dimensione, un modo di realizzarsi egemonizzato da altri, e da altri temi. Per i pochi - presunti - ragazzi "impegnati", quest'idea è vissuta come un conflitto, genera tristezza, desiderio generalizzato di rivalsa: ma per la maggior parte dei giovani non esiste nemmeno, un rapporto conflittuale, non esiste rapporto alcuno. Non esiste passione politica. Non esistono le Primarie del Centro-Sinistra, le circoscrizioni, le commissioni consiliari. Non è reale: la maggior parte di noi non è consapevole di tutto questo; semplicemente resta fuori dalla nostra agenda, dal nostro linguaggio. 

Mi chiedo: esistono altri contesti, altri linguaggi, altri lavori, altre forme di socializzazione, di fare comunità, dove i giovani immaginano e costruiscono la loro politica-futuro?

Credo di sì, ma altrove.

Come nello sport, nella musica, nello studio, nel volontariato. Qui vengono investite una grande ricchezza di energie e di tempo, qui arde una vera passione che si avvicina molto alla definizione di politica presente nel dizionario,
 "attività di chi partecipa alla vita pubblica"

Persino la tanto chiacchierata "esterofilia", l'Erasmus, quella scelta dei giovani di non rimanere, non fa che confermare quanto sia reale la spinta, la visione, la voglia di costruire un mondo bello laddove si crede sia possibile realizzarlo sul serio (non qui, evidentemente). Non parlo (solo) di altri paesi e città. Perché i giovani che si spendono per i problemi del quartiere, del territorio, della cultura, dell'ambiente, ci sono eccome. Esistono una serie di realtà politiche bellissime, a Vicenza, senza una calcolabile rappresentanza, ma dove i giovani investono vera energia "nuova": Festambiente, squadre sportive di ogni livello, la causa che fu il Dal Molin, le Feste Rock, il Centro Tecchio, i gruppi di ballo popolare e di teatro, Scout, Ac, Orti urbani... sono le prime cose che mi vengono in mente, alle quali non mi sogno nemmeno di mettere il cappello, ma che rappresentano persone, linguaggi, temi non certo in cima all'agenda politica di qualcuno. 



Ad un mese dal voto per scegliere il candidato sindaco del Centro-Sinistra, può un giovane qualsiasi andare a votare riconoscendo una persona che rappresenti una svolta per i suoi interessi? I suoi interessi e non quelli "di tutti", come dice ogni candidato, ogni sindaco appena eletto?

Io davvero non lo so, anche se ci spero tanto. Forse, è dato un po' per scontato, soprattutto in questa fase, che chi non ha peso e identità politica, non possa nemmeno spostare voti. Anche se di "squadra di giovani", di "facce nuove", di "team innovativo", si riempono la bocca un po' tutti. Ecco allora (domanda 3) che quelle poche volte che si nota un "volto giovane" proporsi per fare politica, non può che esserci un conflitto in partenza, nato dalla non-conoscenza, dalla diffidenza, dallo scontrarsi, per prima cosa, contro il cinismo e la disillusione. Diamanti scrive che "le passioni non diventano tristi, ma più tiepide. Perché le stesse "fedi" sbiadiscono. E si perdono. La politica: non interessa più a quasi nessuno. Anche fra i più giovani, presso i quali la componente che considera importante la politica non va oltre il 14%". 

Difficile guardare ai giovani impegnati in politica oggi: sono pochi e la maggior parte di questi non lo sono per davvero. Su questo, su chi è già sceso in campo, il resto dei giovani non è davvero coinvolto: o ti unisci a qualcuno con un certo nome, una certa organizzazione, o non puoi pretendere un ruolo da protagonista. Insomma: devi fidarti. E allora, ci si scontra inevitabilmente con gli slogan, i teatrini già noti: i giovani inseriti per occupare una specifica fascia elettorale, il cappello messo in testa al ragazzo di turno, il giovane militante che attende da anni la sua poltroncina cittadina. Questo sì, viene notato, perché non viene perdonato niente, rinforzando il già pesante carico di pregiudizi che può colpire chi, in Politica, è un giovane competente e preparato. Anche in questa #Vicenza2018, credo, si vedranno nuove persone, "nuove" in base all'aria che tira. 


Ho ascoltato le presentazioni dei candidati e le ho trovate - onestamente - un po' noiose. Avrei davvero voluto qualcosa che mi scaldasse il cuore: una differenza netta di idee e di stile (anche se fra candidati dello stesso schieramento), soprattutto in rapporto a chi detiene l'egemonia culturale e politica nelle città della nostra Regione. Per tutti quelli che non respirano gli ambienti di Palazzo Trissino, che non seguono le indiscrezioni dei giornali online, o che non sono personalmente amici degli attori sulla scena, immagino sia dura dire: "questo è il mio candidato". Troppi hastag, troppa atmosfera elegante, troppa poca novità. Una cosa è certa: si parla a poche persone, quelle già coinvolte nell'amministrazione uscente (esclusi e protagonisti, tifosi e avversari nel teatrino delle parti) e a chi - insomma - di politica cittadina vive da tempo e magari con pieno merito, questo non discuto. 


Adriano Vernau dal palco del candidato Giacomo Possamai ha dettato alcune parole da mettere in cima all'agenda, che non restino semplice orpello elettorale: "pace", "giustizia", "verde". E' stato l'intervento che, nella sua semplicità, mi è piaciuto di più. Io, come "giovane qualunque", avrei apprezzato anche: sport, musica, cittadinanza attiva, conoscenza degli ospiti in città, ciclabilità, lavoro, riqualificazione, inquinamento.

Ma capisco che non si possa avere tutto subito: prima ci si ""confronta"" sulle persone che  sono in campo - su Facebook e alla tivvù. Ma anche "nei quartieri" e "con i giovani", ci mancherebbe

No, non mi arrendo al disfattismo, non mi interessa nemmeno tifare contro chi si è messo in gioco.  Ma sono consapevole - una volta di più - di quanto Vicenza sia una città contraddittoria nel profondo; che non vuole l'inquinamento ma nemmeno gli autobus e le bici; che vuole il centro storico, ma se ci si arriva in macchina; città che parla di giovani ma che ai giovani non dedica troppo spazio; città che grida alla voglia di diritti (eccomi: sono uno di quelli!) ma solo quando questi toccano il proprio interesse circoscritto. 

La domanda è: e io, cosa faccio?

La risposta forse è non mollare, crederci, come si canta ogni anno al nostro amato Lanerossi nonostante le sistematiche delusioni. Bisogna credere nell'impegno civico, bisogna metterci la faccia, bisogna esserci e, soprattutto, farsi avanti. Se c'è una cosa che mi lega a Vicenza Capoluogo e a Sandro Pupillo, più di altre, è proprio questa speranza


venerdì 13 ottobre 2017

L'astensione, Athos, il Veneto


Mi fa soffrire l’idea di boicottare uno strumento così bello e importante come il Referendum. Qualsiasi passo, piccolo o grande che sia, che serva a portare i cittadini a riflettere e a confrontarsi, è una cosa alta “di default”: esercizio di democrazia. Per questa ragione, non condivido granché la polemica sullo spreco dei (senz’altro) tanti milioni che servono a organizzare il referendum: ogni volta che si interpellano i cittadini per indagare le loro opinioni, conoscere i loro sogni, la loro vita, non vengono sprecate risorse. Che siano le trivelle o la gestione di una città o di una Regione: la democrazia non è un costo inutile.

Ma non in questo caso. Non tanto per la spesa dell’organizzazione, e nemmeno perché - su questo tema - i soggetti proponenti cavalcano pericolosamente – questo, purtroppo, è nelle loro facoltà - un’onda populista e demagogica. Quello che mi preme di più, semmai, è proprio l’idea che andare a votare “sì” (leghisti o non leghisti, destra o sinistra) serva per “esercitare la democrazia”.

 
Il mio gatto Athos
Questo referendum non è uno strumento di democrazia. Lo penso sia da un punto di vista formale che di sentimento, di “feeling”.

Il nostro “Sì” è l’unica risposta possibile al quesito. Già questo è un segnale di poco rispetto per il confronto e la partecipazione: il popolo non deve esprimersi su alcunché.  Chi non vorrebbe maggiore autonomia? Ma il quesito referendario, in origine, non era questo. I sostenitori del referendum ci dicono che la Regione chiede “maggiori poteri” e “maggiore legittimazione” per andare a “trattare l’autonomia con l’appoggio del popolo. Eppure, è evidente come la Lega e il suo Governatore in origine volessero altro: risulta chiaro dalle leggi regionali, approvate tre anni fa, in cui il Presidente della Giunta veniva autorizzato a interpellare la popolazione su quesiti giudicati chiaramente eversivi. Come il primo, che diceva espressamente:

- Vuoi che il Veneto diventi una Regione indipendente e sovrana?

Già questa domanda dovrebbe farci sobbalzare dalla sedia: quanti genuini elettori del sì andrebbero a votare con lo stessa convinzione e col medesimo sentimento, sapendo che la domanda – in partenza - era di tale portata, completamente diversa da quella generica e inconsistente che voteremo il 22?

I quesiti originari, ben 6, sono stati cancellati perché incompatibili con la Costituzione italiana. Solo l’ultimo quesito, apparentemente innocuo per la sua genericità da quinta elementare, tende anch’esso a ottenere quello che non si può avere: una regione “quasi-speciale”.
Quanta meschinità: utilizzare la mole delle risposte positive come strumento di ricatto contro il governo e contro tutte le altre regioni che sarebbero destinate a rimetterci. È questo lo spirito veneto? Per cosa andranno a votare allora le moltissime persone che pensano di dire “la loro” sul tema dell’autonomia? Sulla questione del residuo fiscale? Questa non è certo di competenza del referendum.
Eppure le possibilità di autonomia offerte dalla Costituzione ci sono eccome. La Carta dice proprio:
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, possono essere attribuite alle altre Regioni [quelle non a statuto speciale], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata.
Ma noi scegliamo di forzare, instillando un risentimento che – abbiamo visto questi giorni – può diventare pericoloso per tutti. Da vent’anni, la Lega stra-vince le elezioni a suon di “Roma ladrona”: i veneti, quindi, si sono espressi molte volte a favore di più autonomia. Qui sta il punto: la vera autonomia si può ottenere – referendum o meno – solo col voto del Parlamento. È quindi facendo battaglia con lo Stato e con il resto dell’Italia che pensiamo di ottenere risultati? La strada di un conflitto con lo Stato è tragicomica e controproducente.
Di fronte a tutto questo non provo vergogna nell’astenermi. Queste persone che mi chiedono di “esercitare la democrazia”, sono le stesse che quasi 10 anni fa contribuirono in ogni modo a impedire che noi veneti ci esprimessimo sulla questione Dal Molin: battaglia che aveva riguardato tutti, persone di ogni colore politico. Ricordo quei momenti. La delusione del voto bloccato, la fiaccolata in piazza. Ricordiamo le democratiche posizioni leghiste del tempo? Oggi come allora, loro erano e sono i “paroni a casa nostra”.
Porto il ricordo di questa ferita, come di tutte le macchie che hanno sporcato la storia del Veneto in questi anni: dai piccoli Joe Formaggio sparsi nelle nostre terre, fino ai finanziamenti pubblici, il sistema sanitario, le banche Venete, la xenofobia, l’istituzionalizzazione della paura, del razzismo.

Da un punto di vista politico, che occasione persa per i Partiti e i movimenti che hanno il COMPITO e il DOVERE di rappresentare un’alternativa culturale e politica alla Lega. Davvero incredibile che nel grande carrozzone dell’autonomia-indipendenza siano saluti tutti, ma proprio tutti, i partiti, i movimenti, i Comuni del territorio, compresi quelli che sanno quanto sia inutile questo referendum, ma che per ragioni di convenienza e di consenso, rimangono zitti.
Davvero i miei complimenti ai ragazzi del Comitato per l’astensione. Unica voce fuori dal coro, un piccolo gruppi di ragazzi dai 25 ai 30 anni: per fortuna, qualcuno c’è.  In un referendum di questo tipo, dove obiettivamente non si può rispondere “no”, l’unica alternativa logica al “si” diventa – purtroppo - l’astensione. Chi non condivide questa Politica ha dunque poche alternative nell’immediato: non partecipare al voto, convincere le persone che si debba utilizzare seriamente il percorso previsto, senza urlare, senza forzare, parlando seriamente del tema del federalismo con tutte le altre regioni.

Io sono orgogliosamente veneto, regione con una storia secolare, una cultura aperta agli altri da sempre: Venezia, la New York del suo tempo, fu capitale del mondo, città cosmopolita e multietnica fin dall’origine. Io provo a dare un piccolissimo contributo studiando la storia e la letteratura, facendo politica e volontariato. Non posso sopportare l’attuale egemonia culturale e politica della mia regione. A volte, mi viene voglia di piangere e di gridare “non è così per tutti!” Ripenso al Veneto e ai veneti; mi coglie l’aristocratico pensiero di andarmene, di sentirmi una persona superiore che non sono: per fortuna il pensiero mi abbandona subito. Non avrei nemmeno il coraggio…

Come fare per resistere a tutto questo? Non ne ho idea! Mi viene in mente la resilienza, quella capacità di un metallo di resistere a urti e torsioni (cioè sopportare). E poi la solita retorica dei piccoli gesti quotidiani, passando anche per una scelta difficile come l’astensione. Fare il nostro in attesa che – inevitabilmente – arrivino i giorni migliori. Mentre scrivo queste parole, il mio gatto Athos dorme sulla bandiera del Veneto che da qualche giorno ho posizionato in salotto. Quando l’ho ricevuta, in qualità di rappresentante d’istituto al Pigafetta più di dieci anni fa, ho subito pensato di gettarla via: era infatti un regalo dell’assessore Donazzan. Per fortuna non l’ho fatto. Nonostante loro si siano presi anche il Leone, il mio segno zodiacale, ci tengo ancora. È la mia bandiera, proprio come “sta lingua che so ma che no parlo”; io ne faccio tesoro e memoria, come mi insegna Bandini:

Sta lingua la xe quela


che doparava me nona stanote

vardandome da dentro la soàsa.

La boca stava sarà, le parole
mi le sentiva ciare.

Me nona


la ga imparà sta lingua da le anguane

che vien zo da le grote

co sona mesanote
caminando rasente le masiere:
e da le róse
dove le lava fódare e nissói
se sente ciof e ciof sora le piere
e te riva un ferume de parole
supià dal vento
che zola par le altane.

Me nona


se ga levà na note co le anguane

par vegnere in sità.

Par paura dei spiriti che va
de sbrindolon tel scuro
la diseva pai trosi la corona.
La xe rivà de matina bonora:
subito dopo un brolo de pomari
ghe iera case e case da ogni banda.

La domandava el nome de na strada,


scoltando na sirena 

la xe rivà in filanda.

«Senti sta tosa come che la parla»,
i pensava vardandola tei oci
i botegari e i coci,
«la pare un stelarin che vien dai orti»…

Sta lingua


la so ma no la parlo,

la xe lingua de morti.



Da Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994