mercoledì 16 maggio 2018

In una casa di Padova


Così Marietto ed io, tra gli appuntamenti e i viaggi e i Comitati, dovevamo sforzarci anche di studiare. Non ci passava nemmeno per la testa, si capisce, di studiare roba di scuola, esami. Studiavamo allo stesso tavolo, nelle ore e nelle rare giornate senza appuntamenti e senza viaggi, ravvolti nelle coperte del letto, coi passamontagne in testa, e i guanti di lana. 

Era un corso accelerato di sapienza anti-fascista. Toccando i quaderni rossi di Giustizia e Libertà, si aveva la sensazione di attingere a una fonte immensa e quasi sacra. Cercavamo di intendere e di assorbire non solo i saggi presi nel loro insieme, ma i singoli paragrafi, le frasi staccate. 
A volte ci venivano dubbi e sconforti. Che cosa faremo quando finisce la guerra di mestiere? mi domandavo; ma non dicevo niente a Marietto, non volevo deprimerlo. 

La guerra civile è una cosa troppo seria, dicevamo, per lasciarla fare alle passioni, al caso. Occorre affidarsi a un'impostazione razionale, meditare la lezione del passato, essere storicisti. Avevamo una fede ardente nella parola storicismo. 

Sentivamo profonda la necessità di stroncare ogni tentativo di giustizia sommaria, ogni confusione passionale, anzi pensavamo che i prevedibili abusi in questo senso dovrebbero venire equiparati a un grado della GNR e puniti con la stessa pena. Bisognava fare il bene dell'Italia, estirpare al proprio cuore l'odio, lasciar governare la ragione. 

Così nella nostra cameretta si configurava il problema della liquidazione della Guerra Civile. Ci era venuto, si vede, un accesso di follia da guerra civile acuta. Eravamo soli e imbacuccati nella nostra camera fredda, due filosofi, due storicisti, due robespierrini in una casa di Padova.

Marietto stava cavandosi i calzinotti. Li chiamava così. Era un ragazzino, appena uscito dalla famiglia si può dire; tutti lo eravamo in fondo, ma lui di più. Si lavava la faccia e il collo sfregando e sfregando, come le mamme una volta imponevano ai bambini di fare; si vestiva, si sfilava i calzinotti, si comportava in tutto coi gesti e i modi di un ragazzino; dietro ai nomi toscani dei suoi indumenti si sentivano gli ammonimenti familiari diventati costume.

Me lo arrestarono, Marietto, al principio della Primavera. Era partito in bicicletta, direzione Venezia, con un grosso pacco sul portabagagli: si cercava sempre di partire appena finito il coprifuoco, alla mattina presto. A Marietto ruppero alcune cartilagini e qualche osso, questo lo sappiamo, perché ala fine della guerra quando venne fuori non erano ancora aggiustati, ma lui non s'è mai curato di raccontare i particolari. 


Io ero con Marietto ora; Marietto era uscito di prigione con gli altri politici, e i ladri, nel corso della mattina; 

mi era venuto incontro per strada come un'apparizione in piena luce del giorno, vivo e sano, salvo alcune cose rotte, che non si vedevano. 


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