domenica 19 novembre 2017

Banditi (ovvero: fare parte di una banda)



Ho vissuto alcuni giorni di #BellaPolitica spendendo del buon tempo. Mi piace stare in mezzo a tanta gente, soprattutto se condividiamo gli stessi interessi, dal calcio alla montagna, dallo scoutismo agli spritz, fino alla politica in senso stretto. Non resisto alla tentazione di mescolare questi momenti e rielaborarli, intrecciarli un po' a caso (a essere onesti), condendoli poi con idee rubate ai miei libri preferiti, quelli che ho sempre in testa. Non sopporto l'idea di separare in compartimenti stagni le sensazioni che mi arrivano dalle passioni, dal volontariato, dal lavoro, dalla politica. La cosa negativa di questo modo di fare è la tendenza a diventare superficiali. La cosa positiva, invece, è il mettere insieme i vari momenti - a riunione, a scuola, allo stadio - parlando dell'una o dell'altra cosa. Siamo abituati a non confondere le sfere, che ognuno resti nella sua comfort zone. Forse ci prendiamo troppo sul serio. 

Nella scorsa Assemblea scout, per esempio, si è parlato di territorio, di farsi viandanti, di uscire noi per primi verso quelle comunità di persone che si sentono sole e minacciate, di smetterla con un atteggiamento psicologico di superiorità e chiusura verso altre associazioni, altri mondi. Si è parlato di giovani, che poi è il fulcro di quello che facciamo. 

È un tema che mi pulsa dentro. Da qualche estate condivido i passi di alcuni giovani da tutta Italia. È una sfida pazzesca camminare con loro, provare a definire e indirizzare l'energia per trovare un posto nel mondo che ci prenda davvero il cuore, e non una delle tante cause che non durano, che non ci dicono. 


La forza di questi campi itineranti nel vicentino (che bello camminare per la mia terra con ragazzi da tutta Italia!) è che sono loro ad insegnare a noi. Li osservo e penso all'incapacità degli adulti di entrare dentro le sofferenze dei giovani, l'incapacità di superare la retorica dei giovani come "categoria"; penso allo strumento dell'"Assessorato alle Politiche Giovanili", come se i ragazzi avessero bisogno di qualcuno che si spendesse per loro, come se non fossero in grado di interloquire loro stessi con gli adulti e con il territorio. Se i ragazzi possono, allora perché ci arrendiamo ad una società in mano agli adulti?

Ho letto da poco un libro che mi ha sconvolto: Quello che dovete sapere di me

Leggendolo ho provato emozioni contrastanti: ammirazione, immedesimazione, invidia, rabbia. Il libro è nato da una ricerca che ha coinvolto giovani fra i 16 e i 21 anni, che si raccontano in forma anonima, parlano di come vedono il mondo, la politica, il futuro. Un libro da regalare soprattutto a chi presume di sapere come va il mondo, ai rappresentanti di una società che chiede voti ma non esige più riti di passaggio, tranne quello tutto apparenza della laurea e del voto scolastico. Nel libro i ragazzi vanno oltre la famiglia, oltre il confine del tempo, del quartiere, della parrocchia. I capitoli del libro sono: avere paura, altalenare, cercare se stessi, credere, amare, imparare, avere coraggio, visioni. Tutta alta politica.

L'ultima lettera, all'ultima riga, dice: "io voglio fare qualcosa".

Chi ha lavorato con questi ragazzi sa bene che questo non è un piagnisteo inconcludente, fine a se stesso, ma la voce e la volontà di una generazione che viene smorzata in modo sistematico proprio dal mondo adulto nel quale sta per entrare. Una constatazione che la visione degli adulti è povera.

Continuo a chiedermi: i ragazzi dove vanno a "fare qualcosa"? Ci facciamo carico del loro peso specifico, delle loro energie, dei lori sogni? Non è forse questa l'unica cosa che conta davvero, che dovrebbe essere in cima all'agenda politica, piuttosto che temi come la sicurezza o il dialogo con categorie sociali non in grado di incidere nel mondo, nelle città, nei tanti quartieri dove si fanno i giri in bici senza incontrare un giovane che sia uno? 

Perchè i ragazzi nel 2017 chiedono ancora in massa lo scoutismo? No, non è dello scoutismo che voglio parlare, pur essendone dentro fino ai capelli. É la domanda di scoutismo che mi interroga. AGESCI poi è uno strumento, né il migliore né l'unico. 

Fanno qualcosa le centinaia di ragazzi che si ritrovano la sera in Piazza delle Erbe? E le fronde di studenti all'uscita dalla scuola? Le migliaia che giocano a pallavolo, danza, rugby?Certamente sì. Chi sono, come impiegano la loro energia positiva, di gran lunga la più luminosa in una città, se non c'è qualcosa in cui possano riconoscersi? Nelle lettere del libro, una cosa è ancora uguale per tutti: la visione del proprio ruolo. Vogliono ancora sfidare il mondo, chiederne uno nuovo rispetto a quello che hanno, dove ci sia molto rispetto per la natura e per le relazioni, pochissimo per la competizione. 

Con una delegazioni di Capi scout abbiamo incontrato, lontano dalle foto e dagli slogan, un candidato al ruolo di Sindaco. Durante l'incontro, abbiamo parlato di Carta del Coraggio e abbiamo letto i sogni di f., 18 anni. Non so quanto sia rimasto di quelle parole dentro di lui, ma è stato bello leggerla insieme, vedere gli occhi di un giovane amministratore incrociarsi con quelli di una giovane scolta. Sentire, in un dibattito politico, la voce di una ragazza che ha scelto un'associazione per diventare una buona cittadina attiva. É una voce che deve uscire dall'Associazione, una voce che il mondo politico deve poter usare come forza-lavoro, come strumento per risolvere i problemi.

Il passo che deve compiere la mia generazione, invece, è superare la dinamica del "gruppo di studentelli scrupolosi e malcontenti". Non sono parole né attuali né mie, ma di Luigi Meneghello, e riferite a 70 anni fa. 

Abbiamo bisogno di affidarci a luoghi e persone credibili che ci possano fare da "maestri". Oggi ci sono cantanti, scrittori, politici che occupano il ruolo sociale una volta riservato ai maestri: uomini e donne brand capaci di influenzare le vite di molti seguaci, tifosi, followers.. ma quanto servirebbero invece veri maestri di vita, da ricercare nelle associazioni, nei gruppi di amici veri, non quelli sempre più votati al culto dell'"ignoranza" sbandierata come vanto, nel mito della "serata", del machismo delle squadre di calcio. Maestri, cioè persone che danno l'esempio, non che insegnano.

Dobbiamo cercare i nostri maestri sotto casa, cercarli non lontano da noi. Proprio come fecero Meneghello e quei ragazzi vicentini  saliti in montagna nell'autunno del 1943. Con una guida cercata e trovata nel mondo della scuola e poi trasferitasi a livello di vita, nella piazza del paese e quindi in Altopiano.

"Questa malga però era singolarmente vuota e nuda. Antonio e gli inglesi si aggiravano di qua e di là con aria quieta e circospetta, rosicchiando quello che avevano portato, e chiacchierando un po'; notai che parlavano tutti sottovoce. Io e Nello stavamo ad ascoltarli. Così dev'essere stato per i primi cristiani quando gli arrivava un apostolo in casa. Antonio non era solo un uomo autorevole, dieci anni più vecchio di noi: era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo. Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studentelli alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutta un'altra cosa. Per quest'uomo passava la sola tradizione alla quale si poteva senza arrossire dare il nome di italiana; Antonio era un "italiano" in un senso in cui nessun altro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. In fondo era proprio per questo che eravamo in giro per le montagne; facevamo i fuorilegge per Rosselli, Salvemini, Gobetti, Gramsci; per Toni Giurolo. Ora tutto appariva semplice e chiaro. Sospiravamo di soddisfazione perchè era arrivato Toni, e anche nelle rocce, nel bosco, pareva che se ne vedesse un segnale."

L'8 settembre del 1943 porta a Vicenza sbandamento e incertezze. L'armistizio, la fuga del re, il crollo dell'esercito. Anche in quel caso, c'era bisogno di nuovi maestri, di decidere ognuno per conto proprio. Quei ragazzi, anche senza una vera coscienza politica, hanno scelto di non attendere gli eventi. Li spingeva lo stesso ribellismo, tipico dei vent'anni, che trovo nelle lettere di Quello che dovete sapere di me: l'aspirazione a un cambiamento, la consapevolezza di stare dalla parte giusta, una serie di incontri decisivi con i tanti "piccoli maestri" che nel percorso ci aiutano a diventare più consapevoli. Meneghello la definisce "un'Italia vispa, caotica, giovanile, vitale, generosa, un po'casinista". 

Fare parte di una banda (-appartenere): che sia questo il nostro modo per incidere? Io lo credo. Che sia AGESCI, che sia una compagnia teatrale, un gruppo di studio, un comitato politico o un club di cucito, possiamo diventare noi una banda? Non c'è libretto di istruzione, penso si debba partire dal contesto dove si è inseriti ora - guardarsi - e dopo qualche birra stilare a mo' di elenco una serie di valori di fondo; o i libri e la musica che ci piacciono. Poi decidere come sfidare il mondo, quando e dove trovarsi per farlo: sennò diventa l'ennesimo gruppo whatsapp destinato a morire il giorno dopo la festa. 

Uso proprio le parole di quell'autunno 1943, perché le trovo tanto mie per questo autunno 2017: ora che "gli istituti" non esistono più, proprio come allora, non possiamo rifarli noi, di sana pianta?

"In tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava, sbandati fraternizzavano con in nuovi renitenti, le famiglie incoraggiavano. c'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni. Tutto era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata, conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. Gli istituti non c'erano più, li avremmo potuti rifare noi, di sana pianta; era ora"


Mettiamo su una banda?


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