A ogni elezione i Comuni devono far uscire dai magazzini le cabine elettorali, le matite copiative, le candele, gli spaghi che sono in dotazione a ogni seggio; provvedere alle installazioni dei tabelloni per pubblicizzare le liste e i candidati; compilare e notificare i certificati elettorali dopo aver aggiornato gli elenchi degli elettori: emigrati, immigrati, deceduti, nuovi iscritti. Un lavoro indispensabile per far funzionare questa più o meno efficiente democrazia.
Ma perché al tempo dell'elettronica si vota come si faceva un secolo fa? Non potrebbe un cittadino, al compimento del 18° anno, ricevere un tesserino simile a quello del codice fiscale e usarlo da certificato elettorale? Questo mi veniva da considerare l'altro giorno quando ebbi occasione di assistere al sorteggio degli scrutatori per i nove seggi del mio comune, e mi ricordai che in una delle prime elezioni del dopoguerra, quando dopo la parentesi fascista la democrazia era entusiasmante, mi diedi da fare per ottenere un posto di scrutatore, non solo per il singolare lavoro che molto mi incuriosiva, ma anche perché con il compenso che veniva dato avrei potuto comperarmi un paio di scarpe per la festa.
Venni assegnato al seggio di una frazione lontana tredici chilometri dal centro dove abito; un piccolo borgo a sua volta frazionato in sette o otto contrade sparse sui fianchi di una montagna al sole. Il pomeriggio precedente le elezioni ci ritrovammo davanti al municipio e una vecchia auto da rimessa ci caricò tutti: il presidente, che era un vecchio cancelliere in pensione appassionato di caccia al capanno, il segretario, un maestro elementare arrivato tra noi esule dall'Istria, e noi quattro scrutatori.
Al villaggio, davanti alle scuole, sede predisposta per il seggio, ci aspettavano due alpini armati e una guardia forestale. Poco dopo, su un'altra macchina arrivarono il sindaco, il segretario comunale e il capo guardaboschi per consegnarci il materiale: le liste, le schede, gli stampati e una copia della legge elettorale. La cosa, per questa prima volta, ci sembro complicata e subito, tutti, ci mettemmo a studiare la legge che il vecchio cancelliere ci leggeva a voce alta. Poi con molta attenzione e meticolosità ci insediammo, dando inizio alle operazioni: il controllo del materiale, delle schede, delle liste degli elettori iscritti al seggio a mano a mano che il segretario compilava il primo verbale.
Dopo sigillammo le schede firmate da due di noi; le finestre con spago e ceralacca. Quando la luce della sera venne meno, dovemmo accendere i lumi a petrolio perché in quel villaggio la corrente elettrica non era ancora arrivata. Alla fine il nostro primo compito ci parve ben assolto, e dopo l'ultimo verbale, alla presenza dei due alpini armati e della guardia forestale, sigillammo anche la porta. Le guardie al seggio avrebbero dormito nel corridoio su due pagliericci. Ecco, ora potevamo andare all'Osteria del Brusamolin a bere qualcosa e aspettare l'auto mandata dal Comune a riprenderci.
Alle cinque di domenica ci ritrovammo tutti davanti al municipio, alle sei giungemmo al nostro seggio e incominciava l'alba; dalla valle che precipitava profonda dopo il piccolo cimitero sentimmo l'ultimo canto della capinera e il primo dei tordi. Suonò la campana della piccola chiesa curaziale di Sant'Antonio. Levammo i sigilli alla porta dopo che le guardie ci assicurarono che era trascorsa una notte molto tranquilla. Dissigillammo anche le finestre per fare entrare l'aria del mattino. Il nostro presidente non volle però levarsi la palandrana. Ancora un verbale, un controllo alle cabine, alle schede, alle liste dei candidati che dovevano essere esposte, alle punte delle matite copiative.
Ci dividemmo i compiti e alle sette precise il nostro presidente fece chiudere le finestre e aprire la porta dalla guardia forestale che aveva il compito di «capo posto». Il presidente stava seduto al centro del tavolo, formato da quattro assi d'abete lunghe quattro metri e posate su cavalietti, ricoperte da carta da pacco; a destra aveva il segretario; noi scrutatori due per parte con le liste degli elettori. Tutti in giacca, camicia candida e cravatta. Già qualche elettore era in attesa nel corridoio della scuola. Il primo a entrare fu Domi che, malgrado il nomignolo, era per noi un personaggio storico di sottile e caustica intelligenza, anche se pochi erano stati i suoi studi. Poi qualche vecchia, tra queste la Catinona: una che faceva scappare gli uomini che osavano passare sulle sue proprietà. Vennero boscaioli, carbonai, il parroco, cavatori, contadini, ma quasi nessuno dei tanti emigrati venne a votare, e troppi nomi non venivano spuntati e annotati con «ha votato».
Vennero invece a curiosare i ragazzi della scuola e in una pausa il nostro presidente acconsentì a loro di visitare il seggio. Intanto il segretario, seguendo le istruzioni, compilava fin dove era possibile gli stampati per i verbali e gli scrutini. A mezzogiorno, siccome non era possibile arrivare a turno nelle nostre case lontane, andammo a mangiare all'Osteria della Linda, la quale ci preparò con amore un vero pranzo con ottime cose. Già nel tardo pomeriggio di quella domenica elettorale tutti gli elettori e le elettrici del piccolo villaggio erano venuti a votare; secondo la legge, però, il seggio doveva restare aperto sino alle ventidue, per poi riaprirsi lunedì dalle sette alle quattordici. Nelle ore vuote andavamo ogni tanto a fare quattro passi per la contrada fumando una sigaretta e scambiando parole con la gente.
Alle quattordici meno qualche minuto arrivò Paluro: uno con una grande barba irsuta, l'aspetto selvaggio; odorava di stalla e di tabacco da sentieri. Quest'uomo viveva solitario in una casa appartata dentro una valletta ed era sempre in conflitto con il guardaboschi per taglio abusivo di faggio. Presentò il suo certificato e gli consegnammo le schede. Entrò nella cabina per esprimere il suo voto ma il difficile fu per lui ripiegare le schede. Entrava e usciva dalla cabina presentandocele aperte o mal ripiegate, o l'una dentro l'altra. Alla fine il presidente decise di mandarmi ad aiutarlo con l'impegno da parte mia di non guardare dove aveva segnato il voto.
Lo spoglio venne molto facile perché erano poco più di un centinaio le schede da scrutinare; molto pochi erano i voti di preferenza, nessuna bianca, poche le nulle o le contestate. Un curioso dibattito avvenne tra il pubblico che seguiva lo scrutinio: un partito di destra che avrebbe dovuto raccogliere due voti se ne trovò uno solo, e i due erano lì che si imputavano a vicenda il presunto tradimento. Alle cinque il nostro lavoro era già finito; il segretario telefonò al segretario comunale perché venissero a prenderci.
Alle sei, in Pretura, eravamo i primi a consegnare la volontà popolare di un piccolo villaggio sparso tra le montagne.
Mario Rigoni Stern
La Stampa, Sabato 4 Aprile 1992
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