Perdo tempo, ancora.
Questa sera dovevo studiare. Ero in cucina. Un inglese, un italiano e un
francese hanno rubato uno schermo dal garage, e ora guardano la Francia
qualificarsi per la coppa del Mondo. Io tifavo per gli avversari, gli
sfavoriti, ma in fondo sono felice che tutte le nostre squadre giocheranno insieme in Brasile. Chissà come li seguiremo questi mondiali, chissà se
insieme, o dove.
Chissà se li
guarderemo, in effetti.
Gioco col tempo
quando in realtà non ne ho molto: devo rispondere a molte cose, a persone,
impegni. Ma qui sono solo, e amo restare sospeso fino all’ultimo, fino a tardi.
Questo riesce a calmarmi, ora sono calmo. Sono felice, per questa partita, per
i posti che andrò a visitare con la camicia arancione, per i mille progetti
assurdi e irrealizzabili che mi sono fatto a scuola in silenzio. La scuola. Sono
tre mesi, in Francia, 6 anni, all’Università. Ho fatto questi conti in classe, mentre
qualche parola francese del professore mi sfiorava soltanto, di striscio.
Non riesco a non
pensare all’Università Italiana.
Non ho il diritto,
la voglia, e soprattutto la capacità intellettuale per sputare nel piatto dove
mangio. Studiare all’estero è un’esperienza, umana e culturale, indispensabile.
Ma stasera guardo il calcio. Non mi sembra di essere una persona poco culturale,
poco interessata; non mi sembra di evitare i miei devoirs. Ma è esattamente così.
La “scuola” di
Padova è tutta un’altra cosa. Ripeto il termine, “scuola”, perché sento di
appartenerci, a Palazzo Maldura, Palazzo Luzzato, al Liviano. Stasera rivorrei
indietro tutti i corsi, dalla triennale alla magistrale, tutti i professori, il
panico, realissimo e giustificato, per esami grandi e importanti. Non voglio
fare l’intellettuale: sono sempre stato uno studente modesto, estremamente innamorato
e orgoglioso di quello che studia, troppo pigro, troppo cazzone. Ho iniziato a
studiare tardi, e so di pagarne ora i risultati. Probabilmente è anche la
ragione per cui voglio continuare a studiare -che sia storia, francese o
religione- anche nei prossimi tempi. Anche se non dipende da me.
A Grenoble non ci
sono esami, monografie, bibliografie. Ci sono compitini che non riescono a
spaventarmi, “dossier” fastidiosi da preparare, lavori da tradurre, a casa. La
biblioteca non è aperta la sera, il sabato, la domenica. In classe non c’è la “lezione
frontale”. Per molti, e non a torto, è un bene: non c’è aura reverenziale, non
c’è un professore che chiama a sé il silenzio in classe. C’è un clima amichevole,
sempre. A molti piace. Forse c'è anche una ragione: deve stimolare lo scambio
fra studenti, lo scambio fra docenti e elevi, lo scambio di nozioni: gli scambi
insomma.
Io non ci trovo
grandi cose, grandi scambi. Sono un retrogrado. Vorrei ancora imparare tanto,
imparare come imparavo a Padova, dove il silenzio era il più delle volte
ammirazione, voglia di ascoltare veramente, di annotare la riflessione di qualcuno
più importante di te. A Padova non hai il tempo per pensare a un’osservazione intelligente, che
faccia ben figurare. Si studia, si ascolta annoiati Cino da Pistoia, si
schematizzano manuali che lì per lì sono puro nozionismo, brani di autori mai
banali, mai facili.
Allora penso che
restare in silenzio, e rispondere con risposta precisa a domanda precisa in un
esame di letteratura, sia il massimo della formazione umana e professionale.
Non mi interessa fare il protagonista se quello che dico saranno ovvietà. È davvero
troppo vasta la letteratura, e troppe le cose da studiare, per assumersi già il
diritto, enorme, di giocare sullo stesso livello di un professore.
Una settimana di
ricerche fra Google e biblioteca, cosa sono in confronto a una vita passata sui
libri?
La grande umiltà
della “lezione padovana” è proprio questa: quando non si interviene non è per
paura, per istupidimento collettivo, ma è una lezione! Una scelta accurata di
parole: sono già tante quelle che dobbiamo studiare, non abbiamo bisogno di
aggiungercene una valanga, ancora. Quello che riusciamo a capire, a far nostro
in silenzio, un giorno potrà magari servire per essere dall’altra parte dell’aula.
C’est sur.
C’est sur.
sembra fascismo e ricerca di ordine e contemporaneamente caos. d'altronde non c'è altro modo di raccontarlo: è l'Italia, nel silenzio polveroso della San Giacomo e nelle parole perse a Palazzo Costantini; nelle aule studio brulicanti, nelle discussioni accorate tra studenti, nella paura dei professori; paura buona e paura cattiva, quando dice meno di quello che è: nonnismo culturale.
RispondiEliminae ti dirò una cosa: una settimana di wikipedia e ricerche può essere tutta una vita, così tutta una vita, per esempio la mia, la si può riassumere in un mese di ricerca. non sarà un racconto di tutto il viaggio ma è una "scelta accurata" parole e momenti e sensazioni e casi.
e questa privazione di radici, di fronte alla corteccia umana incancrenita e fumante e attorcigliata con volute di fumo e rami a un ufficio di palazzo maldura, crea un non certo necessario contrasto; dove questo porti, io ancora non lo so
ma forse è solo un altro pezzo del silenzio da portarsi nello zaino, ovunque tu vada.