Una di quelle
conversazioni in passeggiata che dicono molto; molto più di quello che credevo
e che soltanto intuivo. Mi rimbombano nella testa le parole e le idee di quel momento,
che mi interessavano ben oltre l’argomento, ben oltre la circostanza del
momento, ben oltre quel mio essere in
totale disaccordo. Ma in fondo: mai lasciarsi coinvolgere troppo da
questa città, dalle sue piccole beghe stagnanti: un insegnamento che ho bene imparato,
perché ciclicamente dimostra la sua esattezza. Salendo per un sentiero improbabile,
della quale direzione espressamente non mi curavo, ho potuto respirare, anche
se per poche curve, la durezza di confrontarsi con prospettive inconciliabili:
sulle radici, sull’amore, sul viaggio, tutti temi che ossessivamente osservo,
studio, catalogo. Che non mi lasciano sereno. Alcune di queste tensioni le sento
esplodermi dentro, reali come il grande muro di una vecchia ghiacciaia, oggi
caratteristica osteria, che separa – inconsciamente – vicentini bianchi e
vicentini rossi. Zac, patapum. Sento già il giudizio di morbosità arrivare da
ogni dove e da ogni sguardo, anche da persone vicine. Di questo io non mi curo.
Ma per me questa barriera, questa insoddisfazione, questa potenzialità mai in
atto, è più vera del vero, e anche oggi emergeva, passeggiando in un paesaggio
che è scenografia, teatro meraviglioso, anche se rovinato dai soldi di chissà
chi.
Allora non
credo troverò mai la giusta dimensione, qui. Ancora la sto cercando, ancora non
la trovo. Mi ostino a vedere cose che non ci sono, cercando compromessi
impossibili, perché, evidentemente, inattuabili fra persone e paesaggi che non
vogliono trovarsi perché non lo ritengono né mai lo riterranno possibile. Si
tratta dell’essere innamorati in senso lato, certo, un atteggiamento che per me
significa tante cose allo stesso momento. I Berici sono i Berici, e stop. E stop.
Contenti i genitori? I parenti? Gli amici? Questo è quello che so del mio
futuro, della mia laurea , della mia tesi. Ho un sacco di progetti, vedrete. Di
cosa sto parlando? Bè vedi, se resti invischiato a leggerti in certi paesaggi, come
quelli di questa passeggiata, non esci più. In una città chimerica e teatrale come
questa puoi solo essere un certo tipo di persona e poc’altro. Il bene, è quella
pieve benedettina dell’XI secolo. Il male, quello che vengo di scrivere.
Devo,
forse, imparare a rinunciare davvero. Oggi, rimpiango una piccola serie di
cose, ma col sorriso tra i denti, beninteso. Rimpiango di non aver visto un poco oltre questi Colli finché esisteva la possibilità concreta di farlo. Ma in fondo, siamo quello che siamo, siamo la nostra educazione. Così tante idee ho
cambiato, per fortuna… Cannocchiali rovesciati che conservo con cura dentro di me,
che altri lo vogliano vedere o meno. Li amo così tanto questi scorci che mi sento
soffocare, ma perché? Sono problemi in fondo così piccoli, insignificanti da
risolvere... Forse, è che vorrei tanto una tartina a quel gusto,
a quell’orario, con chi dico io, per elencarli solo, questi problemi di prospettiva, queste lagne da piccolo vicentino. Qualcuno
che rida a una battuta stupida e solo lievemente volgare, che veda queste ville
seicentesche con, dal, mio stesso cannocchiale.
Né rosso,
né bianco, Vicenza. Qualche sfumatura di arancione, come quella che abbiamo
trovato oggi ad Arcugnano, sarebbe perfetta.
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