UN VIAGGIO
Nei giorni scorsi, insieme a sei amministratori e amministratrici con delega alla pace — Vania, Francesca, Giovanni, Jacopo, Sandro e Giorgia — su invito di Operazione Colomba e dei suoi volontari ci siamo recati in Cisgiordania, fino Tuwani, in Masafer Yatta, regione a sud di Hebron.
È stato intenso, vedere personalmente quanto viene denunciato da tempo nelle nostre piazze e consigli comunali. Eravamo mossi anche da un’esigenza molto personale: toccare con mano le violenze, capire cosa significa la violazione dei più elementari diritti umani.
È difficile raccontare la Palestina, è difficile comprenderla ed è difficile attraversarla. Se l’abbiamo fatto è perché godiamo di una posizione privilegiata rispetto a tante persone che lì vivono da sempre.
Abbiamo incontrato persone con le loro versioni e prospettive, in un “arcipelago” di terra interrotta e ferita da occupazioni e colonie illegali e dove il diritto internazionale non è “fino a un certo punto”: proprio non esiste. Arcipelago perché è un misto di tante cose. Dal semiarido e desertico, agli oliveti e vigneti, alla macchia mediterranea fimo alle steppe aride. Ma è soprattutto un mare di frammentazione territoriale — i confini amministrativi, i check point creano un mosaico impossibile di spazi fisici interdetti, bloccati.
Arriviamo all’aeroporto Ben Gurion, Tel Aviv. Aeroporto interdetto ai palestinesi, beninteso. Attraversiamo Gerusalemme dalla Porta di Damasco. Giornata calda, cielo terso, che dà una luce particolare ai tratti mediorientali della città. Una porta un tempo luogo simbolo culturale e commerciale — oltre che politico — della Gerusalemme Est. Ora scalinate, posti di guardia, e scelte urbanistiche hanno tolto parte di quell’antica centralità, ma resta l’accesso alla città vecchia più autentico.
Appena oltre l’arco possente, le mura di pietra, voci dei venditori si intrecciano con gli aromi, il canto dei muezzin lontano e le campane della Città Vecchia. Mi soffermo su questo perché tra i fucili dei soldati che sono un po' ovunque riconosco luoghi che ho "ascoltato" fin da bambino: la Via Dolorosa, il Muro del Pianto, il Santo Sepolcro. Anche noi lasciamo il nostro biglietto al Muro del Pianto e, dopo due controlli, arriviamo alla Spianata delle Moschee (al Haram al Sharif). Proprio in questi giorni occupata dai coloni israeliani.
Il lento affievolirsi dell’identità araba di Gerusalemme Est è uno dei fenomeni dolorosi e complessi del presente mediorientale. La città sta subendo una progressiva erosione della sua fisionomia araba. Non solo per la presenza crescente di coloni israeliani nei quartieri tradizionalmente palestinesi, ma anche per una politica urbanistica e amministrativa che tende a riconfigurare il tessuto urbano e simbolico della città: case demolite, permessi di costruzione negati, revoche di residenza e nuove infrastrutture che isolano i quartieri palestinesi.
Ci fermiamo a prendere qualcosa che per me è insolito ma che in ogni via trabocca: il succo di melograno, spremuto con l’apposito spremi melograno. Molti gatti abitano le vie. In questo contesto troviamo la libreria Educational Bookshop, un piccolo faro culturale che resiste vicino al quartiere di Sheikh Jarrah. Un archivio vivo della memoria palestinese e un laboratorio di pensiero critico aperto al mondo. È uno dei pochi luoghi dove palestinesi, israeliani e stranieri possono ancora sedersi insieme a discutere, leggere, ascoltare.
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AIDA CAMP
Da Gerusalemme ci spostiamo a Betlemme. Dedichiamo un tempo sostanziale alla visita dell’Aida Camp. Il campo profughi palestinese si trova a nord di Betlemme, fondato nel 1950 per accogliere i palestinesi che fuggirono o furono espulsi durante la guerra del 1948 (la Nakba). Il campo è circondato dal muro di separazione israeliano, da torri di controllo e checkpoint.
Ci accoglie Moustafa: caffè, grandi sorrisi, fuori dallo “Youth centre”. Poco prima di entrare incontriamo un grande portale di cemento sormontato da una gigantesca chiave di ferro — simbolo universale del diritto al ritorno dei profughi.
Sulle pareti attorno all’ingresso si stendono murales colorati di ogni tipo: volti di bambini, mappe della “Palestina storica”, figure di donne con le chiavi in mano, scritte in arabo e inglese.
Moustafa ci racconta delle ronde notturne e di giorno, quasi tutti i giorni, da parte dell’IDF. «Aida è diventato un villaggio, non tende, ma noi siamo ancora rifugiati: aspettiamo di tornare».
Visitiamo la nuova scuola realizzata grazie ai fondi ONU, con le finestre antiproiettili affacciate sul grande muro: nel campo l’istruzione è uno degli strumenti essenziali di resilienza ed è vissuta con grande intensità e profitto. I bambini, all’uscita, ci circondano per chiedere una moneta o una foto. «Education is one of the most powerful ways» ci dicono. «Educhiamo al rispetto e alla storia dei nostri nonni. Se chiedete ai bambini per strada da dove sono, risponderanno: dai villaggi evacuati dal 1948 in poi».
I servizi della UNRWA, agenzia ONU, stanno calando — soprattutto medicinali. In molti anni la maggior parte dell’assistenza medica proveniva dagli Stati Uniti. Giriamo fra le vie strette del Campo che non può espandersi e quindi cresce solo in altezza, con i conseguenti problemi di servizi, acqua, spazio e sicurezza.
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TUWANI
Andiamo a Tuwani con un taxi collettivo da Betlemme. È un piccolo villaggio palestinese nell’area collinare di Masafer Yatta, a sud di Hebron, in Cisgiordania, circondata da colline brulle e uliveti, dove le case di pietra e le tende si fondono con il paesaggio. È classificata Area C, sotto pieno controllo israeliano.
Il villaggio è noto per la resilienza dei suoi abitanti, che da anni resistono ai tentativi di espulsione e alle pressioni dei coloni israeliani vicini. L’area è stata dichiarata zona di addestramento militare (firing zone) e ciò mette in costante pericolo la sopravvivenza delle comunità locali.
Durante il viaggio verso il Masafer Yatta non siamo stati fermati da checkpoint, ma incrociamo colonie e avamposti praticamente ovunque. All’ingresso di ogni deviazione per i villaggi palestinesi, grandi cancelli gialli chiariscono se si può entrare o uscire.
Arriviamo a casa di Hafez: luogo particolare dove convivono la sua numerosa famiglia, i volontari internazionali nella vicina guest house (recentemente soggetta a ordine di demolizione), tanti gatti. Hafez ci accoglie, portandoci una cassa di mandarini. Hafez è un contadino palestinese, attivista per i diritti terrieri e leader locale della resistenza non violenta organizzata dal comitato South Hebron Hills Popular Committee. “Qui vige l’ordine militare e la logica delle armi e dell’impunità totale. I villaggi di questa zona sono considerati parte della firing zone: l’ordine è andar via. Distruggono quello che possono: pozzi, infrastrutture; evacuano palestinesi. Tutto questo si è svolto sotto una debolissima attenzione mediatica”.
La resistenza nonviolenta di Tuwani parte nel 2000 con l’opposizione alla costruzione del muro, prosegue con cause legali, picchetti, accoglienza di attivisti internazionali per “accompagnamento” eventi comunitari. Si lavora giorno e notte per unire i villaggi con modalità e obiettivi comuni.
Hammoudi, figlio di Hafez, ci mostra Tuwani dall’alto, con gli avamposti di Ma’on (insediamento ufficiale) e dell’avamposto illegale anche per Israele Havat Ma’on, appena sopra casa sua. Polvere, olivi, in gran parte spianati e bruciati, ma anche territori incontaminati, pieni di filo spinato, barriere e muri. Gli avamposti quasi toccano le case del villaggio. Con noi i volontari internazionali di Operazione Colomba che filmano e accompagnano i palestinesi, documentando e proteggendo.
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BASEL
Sono posti bellissimi. Letteralmente “da film”. Lo dico perché qui, pochi mesi fa, è arrivata la statuetta dell’Oscar. Per il film No Other Land, incontriamo Basel Adra, regista e attivista. La sua casa, che all’ingresso colleziona lacrimogeni e bombe lanciate contro la proprietà, ospita attivisti non violenti israeliani. Fa strano sedere di fianco a un premio Oscar, una persona così umile, malinconica, determinata.
Ci racconta del grande supporto dalle manifestazioni in tutta la Palestina, e ci invita a “cogliere il momento”, perché la situazione sta peggiorando e non migliorando in Masafer Yatta. “Dopo il film non è cambiato molto per la mia comunità”.
La comunità israeliana ha attaccato il film e lanciato una campagna di discredito. Nove nuove colonie in più negli ultimi due anni in questa zona. Ogni notte invasioni, arresti, interrogatori per far capire chi è il padrone. Altre forme di resistenza. La cooperativa delle donne, il percorso accompagnato dai volontari internazionali in mezzo alle colline da Tuba a Tuwani per portare i bimbi a scuola, lo sciopero della fame per ottenere indietro il corpo di Awdah, l’attivista e giornalista trentenne ucciso in pieno giorno dal colono israeliano Yinon Levy. Il ragazzo, presente nel film, ha letteralmente filmato la sua morte.
Il padre di Basel, Nasser Adra, gestisce l’ultima pompa di benzina prima del deserto. È il luogo ritratto con commozione in No Other Land. Ci facciamo una foto lì, come fossimo su un set — che invece è realtà.
Dormiamo a Tuwani, nella guest house senza più mobili, senza più porte. I bulldozer potrebbero arrivare da un momento all’altro. A cena si prepara e si mangia insieme: volontari, amministratori, ospiti della comunità di Tuwani. Hummus, carne, pite. Naturalmente zatar — spezia tipica che è ovunque: nel pane, nel tè, nella carne.
Torniamo a Betlemme il giorno successivo.
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BETLEMME
Hiba e Wissam sono due capi scout di Beit Sahour, vicino Betlemme. Due persone normali, che sono potute venire in Italia con i loro ragazzi per uno scambio ospitati dai ragazzi coetanei dei Comuni della Riviera del Brenta la scorsa estate.
“Per la prima volta mio figlio si è sentito così libero, ama l’Italia” ci racconta Hiba, seduti in un bar dove siamo gli unici clienti, al polso un braccialetto dell’Italia. Lei lavora all’università, lui a Gerusalemme: partenza alle 5 da casa, dalle 2 alle 8 ore per entrare. Per uscire dal paese e viaggiare, solo dalla Giordania, con il valico aperto dalle 8 alle 12 per uscire ad Amman. Hiba ci dice: «Mio figlio mi chiede perché ci fanno tutto questo?» Facendoci capire che è difficile non crescere nella rabbia e nell’incomprensione. Eppure continuano, facendo scoutismo e i campi estivi, con tende e sopraelevate, in territorio area C.
Visitiamo il municipio di Betlemme, con il sindaco Nicola Maher che è stato nostro ospite poco tempo fa. All’ingresso del municipio, sulla piazza principale di Betlemme, una cartina del mondo mostra tutte le città gemellate o amiche di questo luogo simbolo della cristianità, che ora soffre con strade e alberghi semivuoti. Fra queste c’è anche Vicenza.
Il sindaco e i suoi consiglieri sono contenti di rivederci. Ancora caffè per tutti, in tazzine al solito molto piccole. Raccontiamo cosa abbiamo visto, vediamo la loro reazione, seria, pacata. Si avvicina il Natale e il sindaco ci invita a tornare nuovamente, vivere la speranza, riempire le strade. «Anche se ci separano, siamo uniti: la nostra forza è creare connessioni tra esseri umani». «La verità è ciò che vedi con i tuoi occhi; il supposto è ciò che gli altri ti dicono», ci dice Hisham Al Kamel, consigliere di Betlemme.
È così: incrociamo anche il coro Amwaj, diretto da Michele Cantoni e con al piano il maestro Ramzi, diplomatosi a Vicenza. Le canzoni del coro, che ha cantato con Paola Turci per raccogliere fondi per l’ospedale cittadino, poi la visita al Bethlehem Peace Center in piazza: dove si svolge il mercato delle donne con prodotti locali e di loro produzione — ora che gli uomini non lavorano, sono le donne a gestire l’economia familiare di molte famiglie, ci raccontano. Facciamo “shopping” di Zatar e saponi, datteri, e immaginiamo di tornarci al Peace Center, con il quale abbiamo siglato un protocollo di collaborazione.
È uno degli ultimi incontri prima del rientro. Dobbiamo prendere l’aereo. In aeroporto, un lungo interrogatorio confronta le nostre versioni: «Chi siete? Da quanto vi conoscete? Dove siete andati? Con chi avete parlato?» È stato un momento per me inedito, pesante, soffocante. Ma non mi spingo oltre, perché è poca cosa rispetto alla bellezza e alla fatica che abbiamo visto; non vuole distogliermi dall’impegno preso con i miei compagni di viaggio. Tornare e costruire.
La cosa che più mi ha colpito la cortesia e la serenità di chi ci ha ospitati. Un popolo in sofferenza, con un genocidio in corso, ma con una grande semplicità e umanità che ho trovato sproporzionata, quasi ingiusta. Rivoluzionaria.

