martedì 31 ottobre 2017

#Primarie, 👍e 💗


Mi incuriosisce molto ascoltare i "candidati Sindaco" che stanno concorrendo alle Primarie: cos'hanno da dire a quel popolo del Centro-Sinistra che - senza dubbio - è il riferimento politico e culturale di tante persone, anche se non si dice a gran voce, in una città e in una regione dove non paga pendere troppo da una parte. 

Non entro nel merito di queste Primarie perchè:
  • Non sono in grado di farlo
  • Sono di parte
  • Finora si è parlato più di persone, di slogan, "team di lavoro", che di programma, idee
Provo, semmai, a scrivere un tema di scuola: i giovani e la politica. Senza avere i "documenti" e le competenze per farlo, cadrò sicuramente nel moralistico e nello scontato. Ma ho bisogno di rispondere a delle domande che non hanno nulla di provocatorio.

Sono:
  1. Come vivono i giovani l'impegno politico?
  2. Un giovane è rappresentato?
  3. Un giovane cosa vede in questa consultazione?
Domande che non ho l'arroganza di riuscire a rispondere.


Per la domanda 1, come nei più classici compiti per casa, ho cercato lumi in Internet. Ho letto gli articoli di Diamanti e altri, le solite risposte. Una mi convince più di altre: la reale precarietà del vivere per un giovane di oggi, che porta a un naturale disinteresse verso "l'impegno politico". Non perché non ci sia voglia - quindi - ma perché si è andati troppo oltre, troppo in là con questa generazione, che si sente privata delle proprie speranze, della capacità di costruirsi il proprio futuro. Effettivamente, con simili premesse, è difficile avere fiducia "in altri", negli altri. 

La domanda 2 non è una domanda, è una risposta che mi sono già dato. Difficile che i giovani si sentano rappresentati da liste, programmi elettorali, movimenti, sindacati. Mi sbaglierò, ma credo che manchi proprio la voglia di trovare nuovi rappresentanti e spazi di politica rappresentativa, per i ragazzi di oggi, anche dove ci siano persone o associazioni che meritano davvero. Questo perché è troppo forte la sensazione di "non poter fare la differenza", di essere usati o tirati per la giacchetta. 
Non è disimpegno, non è anti-politica. Si è solo raggiunta  la consapevolezza che la politica - quella politica - sia una piattaforma, una dimensione, un modo di realizzarsi egemonizzato da altri, e da altri temi. Per i pochi - presunti - ragazzi "impegnati", quest'idea è vissuta come un conflitto, genera tristezza, desiderio generalizzato di rivalsa: ma per la maggior parte dei giovani non esiste nemmeno, un rapporto conflittuale, non esiste rapporto alcuno. Non esiste passione politica. Non esistono le Primarie del Centro-Sinistra, le circoscrizioni, le commissioni consiliari. Non è reale: la maggior parte di noi non è consapevole di tutto questo; semplicemente resta fuori dalla nostra agenda, dal nostro linguaggio. 

Mi chiedo: esistono altri contesti, altri linguaggi, altri lavori, altre forme di socializzazione, di fare comunità, dove i giovani immaginano e costruiscono la loro politica-futuro?

Credo di sì, ma altrove.

Come nello sport, nella musica, nello studio, nel volontariato. Qui vengono investite una grande ricchezza di energie e di tempo, qui arde una vera passione che si avvicina molto alla definizione di politica presente nel dizionario,
 "attività di chi partecipa alla vita pubblica"

Persino la tanto chiacchierata "esterofilia", l'Erasmus, quella scelta dei giovani di non rimanere, non fa che confermare quanto sia reale la spinta, la visione, la voglia di costruire un mondo bello laddove si crede sia possibile realizzarlo sul serio (non qui, evidentemente). Non parlo (solo) di altri paesi e città. Perché i giovani che si spendono per i problemi del quartiere, del territorio, della cultura, dell'ambiente, ci sono eccome. Esistono una serie di realtà politiche bellissime, a Vicenza, senza una calcolabile rappresentanza, ma dove i giovani investono vera energia "nuova": Festambiente, squadre sportive di ogni livello, la causa che fu il Dal Molin, le Feste Rock, il Centro Tecchio, i gruppi di ballo popolare e di teatro, Scout, Ac, Orti urbani... sono le prime cose che mi vengono in mente, alle quali non mi sogno nemmeno di mettere il cappello, ma che rappresentano persone, linguaggi, temi non certo in cima all'agenda politica di qualcuno. 



Ad un mese dal voto per scegliere il candidato sindaco del Centro-Sinistra, può un giovane qualsiasi andare a votare riconoscendo una persona che rappresenti una svolta per i suoi interessi? I suoi interessi e non quelli "di tutti", come dice ogni candidato, ogni sindaco appena eletto?

Io davvero non lo so, anche se ci spero tanto. Forse, è dato un po' per scontato, soprattutto in questa fase, che chi non ha peso e identità politica, non possa nemmeno spostare voti. Anche se di "squadra di giovani", di "facce nuove", di "team innovativo", si riempono la bocca un po' tutti. Ecco allora (domanda 3) che quelle poche volte che si nota un "volto giovane" proporsi per fare politica, non può che esserci un conflitto in partenza, nato dalla non-conoscenza, dalla diffidenza, dallo scontrarsi, per prima cosa, contro il cinismo e la disillusione. Diamanti scrive che "le passioni non diventano tristi, ma più tiepide. Perché le stesse "fedi" sbiadiscono. E si perdono. La politica: non interessa più a quasi nessuno. Anche fra i più giovani, presso i quali la componente che considera importante la politica non va oltre il 14%". 

Difficile guardare ai giovani impegnati in politica oggi: sono pochi e la maggior parte di questi non lo sono per davvero. Su questo, su chi è già sceso in campo, il resto dei giovani non è davvero coinvolto: o ti unisci a qualcuno con un certo nome, una certa organizzazione, o non puoi pretendere un ruolo da protagonista. Insomma: devi fidarti. E allora, ci si scontra inevitabilmente con gli slogan, i teatrini già noti: i giovani inseriti per occupare una specifica fascia elettorale, il cappello messo in testa al ragazzo di turno, il giovane militante che attende da anni la sua poltroncina cittadina. Questo sì, viene notato, perché non viene perdonato niente, rinforzando il già pesante carico di pregiudizi che può colpire chi, in Politica, è un giovane competente e preparato. Anche in questa #Vicenza2018, credo, si vedranno nuove persone, "nuove" in base all'aria che tira. 


Ho ascoltato le presentazioni dei candidati e le ho trovate - onestamente - un po' noiose. Avrei davvero voluto qualcosa che mi scaldasse il cuore: una differenza netta di idee e di stile (anche se fra candidati dello stesso schieramento), soprattutto in rapporto a chi detiene l'egemonia culturale e politica nelle città della nostra Regione. Per tutti quelli che non respirano gli ambienti di Palazzo Trissino, che non seguono le indiscrezioni dei giornali online, o che non sono personalmente amici degli attori sulla scena, immagino sia dura dire: "questo è il mio candidato". Troppi hastag, troppa atmosfera elegante, troppa poca novità. Una cosa è certa: si parla a poche persone, quelle già coinvolte nell'amministrazione uscente (esclusi e protagonisti, tifosi e avversari nel teatrino delle parti) e a chi - insomma - di politica cittadina vive da tempo e magari con pieno merito, questo non discuto. 


Adriano Vernau dal palco del candidato Giacomo Possamai ha dettato alcune parole da mettere in cima all'agenda, che non restino semplice orpello elettorale: "pace", "giustizia", "verde". E' stato l'intervento che, nella sua semplicità, mi è piaciuto di più. Io, come "giovane qualunque", avrei apprezzato anche: sport, musica, cittadinanza attiva, conoscenza degli ospiti in città, ciclabilità, lavoro, riqualificazione, inquinamento.

Ma capisco che non si possa avere tutto subito: prima ci si ""confronta"" sulle persone che  sono in campo - su Facebook e alla tivvù. Ma anche "nei quartieri" e "con i giovani", ci mancherebbe

No, non mi arrendo al disfattismo, non mi interessa nemmeno tifare contro chi si è messo in gioco.  Ma sono consapevole - una volta di più - di quanto Vicenza sia una città contraddittoria nel profondo; che non vuole l'inquinamento ma nemmeno gli autobus e le bici; che vuole il centro storico, ma se ci si arriva in macchina; città che parla di giovani ma che ai giovani non dedica troppo spazio; città che grida alla voglia di diritti (eccomi: sono uno di quelli!) ma solo quando questi toccano il proprio interesse circoscritto. 

La domanda è: e io, cosa faccio?

La risposta forse è non mollare, crederci, come si canta ogni anno al nostro amato Lanerossi nonostante le sistematiche delusioni. Bisogna credere nell'impegno civico, bisogna metterci la faccia, bisogna esserci e, soprattutto, farsi avanti. Se c'è una cosa che mi lega a Vicenza Capoluogo e a Sandro Pupillo, più di altre, è proprio questa speranza


venerdì 13 ottobre 2017

L'astensione, Athos, il Veneto


Mi fa soffrire l’idea di boicottare uno strumento così bello e importante come il Referendum. Qualsiasi passo, piccolo o grande che sia, che serva a portare i cittadini a riflettere e a confrontarsi, è una cosa alta “di default”: esercizio di democrazia. Per questa ragione, non condivido granché la polemica sullo spreco dei (senz’altro) tanti milioni che servono a organizzare il referendum: ogni volta che si interpellano i cittadini per indagare le loro opinioni, conoscere i loro sogni, la loro vita, non vengono sprecate risorse. Che siano le trivelle o la gestione di una città o di una Regione: la democrazia non è un costo inutile.

Ma non in questo caso. Non tanto per la spesa dell’organizzazione, e nemmeno perché - su questo tema - i soggetti proponenti cavalcano pericolosamente – questo, purtroppo, è nelle loro facoltà - un’onda populista e demagogica. Quello che mi preme di più, semmai, è proprio l’idea che andare a votare “sì” (leghisti o non leghisti, destra o sinistra) serva per “esercitare la democrazia”.

 
Il mio gatto Athos
Questo referendum non è uno strumento di democrazia. Lo penso sia da un punto di vista formale che di sentimento, di “feeling”.

Il nostro “Sì” è l’unica risposta possibile al quesito. Già questo è un segnale di poco rispetto per il confronto e la partecipazione: il popolo non deve esprimersi su alcunché.  Chi non vorrebbe maggiore autonomia? Ma il quesito referendario, in origine, non era questo. I sostenitori del referendum ci dicono che la Regione chiede “maggiori poteri” e “maggiore legittimazione” per andare a “trattare l’autonomia con l’appoggio del popolo. Eppure, è evidente come la Lega e il suo Governatore in origine volessero altro: risulta chiaro dalle leggi regionali, approvate tre anni fa, in cui il Presidente della Giunta veniva autorizzato a interpellare la popolazione su quesiti giudicati chiaramente eversivi. Come il primo, che diceva espressamente:

- Vuoi che il Veneto diventi una Regione indipendente e sovrana?

Già questa domanda dovrebbe farci sobbalzare dalla sedia: quanti genuini elettori del sì andrebbero a votare con lo stessa convinzione e col medesimo sentimento, sapendo che la domanda – in partenza - era di tale portata, completamente diversa da quella generica e inconsistente che voteremo il 22?

I quesiti originari, ben 6, sono stati cancellati perché incompatibili con la Costituzione italiana. Solo l’ultimo quesito, apparentemente innocuo per la sua genericità da quinta elementare, tende anch’esso a ottenere quello che non si può avere: una regione “quasi-speciale”.
Quanta meschinità: utilizzare la mole delle risposte positive come strumento di ricatto contro il governo e contro tutte le altre regioni che sarebbero destinate a rimetterci. È questo lo spirito veneto? Per cosa andranno a votare allora le moltissime persone che pensano di dire “la loro” sul tema dell’autonomia? Sulla questione del residuo fiscale? Questa non è certo di competenza del referendum.
Eppure le possibilità di autonomia offerte dalla Costituzione ci sono eccome. La Carta dice proprio:
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, possono essere attribuite alle altre Regioni [quelle non a statuto speciale], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata.
Ma noi scegliamo di forzare, instillando un risentimento che – abbiamo visto questi giorni – può diventare pericoloso per tutti. Da vent’anni, la Lega stra-vince le elezioni a suon di “Roma ladrona”: i veneti, quindi, si sono espressi molte volte a favore di più autonomia. Qui sta il punto: la vera autonomia si può ottenere – referendum o meno – solo col voto del Parlamento. È quindi facendo battaglia con lo Stato e con il resto dell’Italia che pensiamo di ottenere risultati? La strada di un conflitto con lo Stato è tragicomica e controproducente.
Di fronte a tutto questo non provo vergogna nell’astenermi. Queste persone che mi chiedono di “esercitare la democrazia”, sono le stesse che quasi 10 anni fa contribuirono in ogni modo a impedire che noi veneti ci esprimessimo sulla questione Dal Molin: battaglia che aveva riguardato tutti, persone di ogni colore politico. Ricordo quei momenti. La delusione del voto bloccato, la fiaccolata in piazza. Ricordiamo le democratiche posizioni leghiste del tempo? Oggi come allora, loro erano e sono i “paroni a casa nostra”.
Porto il ricordo di questa ferita, come di tutte le macchie che hanno sporcato la storia del Veneto in questi anni: dai piccoli Joe Formaggio sparsi nelle nostre terre, fino ai finanziamenti pubblici, il sistema sanitario, le banche Venete, la xenofobia, l’istituzionalizzazione della paura, del razzismo.

Da un punto di vista politico, che occasione persa per i Partiti e i movimenti che hanno il COMPITO e il DOVERE di rappresentare un’alternativa culturale e politica alla Lega. Davvero incredibile che nel grande carrozzone dell’autonomia-indipendenza siano saluti tutti, ma proprio tutti, i partiti, i movimenti, i Comuni del territorio, compresi quelli che sanno quanto sia inutile questo referendum, ma che per ragioni di convenienza e di consenso, rimangono zitti.
Davvero i miei complimenti ai ragazzi del Comitato per l’astensione. Unica voce fuori dal coro, un piccolo gruppi di ragazzi dai 25 ai 30 anni: per fortuna, qualcuno c’è.  In un referendum di questo tipo, dove obiettivamente non si può rispondere “no”, l’unica alternativa logica al “si” diventa – purtroppo - l’astensione. Chi non condivide questa Politica ha dunque poche alternative nell’immediato: non partecipare al voto, convincere le persone che si debba utilizzare seriamente il percorso previsto, senza urlare, senza forzare, parlando seriamente del tema del federalismo con tutte le altre regioni.

Io sono orgogliosamente veneto, regione con una storia secolare, una cultura aperta agli altri da sempre: Venezia, la New York del suo tempo, fu capitale del mondo, città cosmopolita e multietnica fin dall’origine. Io provo a dare un piccolissimo contributo studiando la storia e la letteratura, facendo politica e volontariato. Non posso sopportare l’attuale egemonia culturale e politica della mia regione. A volte, mi viene voglia di piangere e di gridare “non è così per tutti!” Ripenso al Veneto e ai veneti; mi coglie l’aristocratico pensiero di andarmene, di sentirmi una persona superiore che non sono: per fortuna il pensiero mi abbandona subito. Non avrei nemmeno il coraggio…

Come fare per resistere a tutto questo? Non ne ho idea! Mi viene in mente la resilienza, quella capacità di un metallo di resistere a urti e torsioni (cioè sopportare). E poi la solita retorica dei piccoli gesti quotidiani, passando anche per una scelta difficile come l’astensione. Fare il nostro in attesa che – inevitabilmente – arrivino i giorni migliori. Mentre scrivo queste parole, il mio gatto Athos dorme sulla bandiera del Veneto che da qualche giorno ho posizionato in salotto. Quando l’ho ricevuta, in qualità di rappresentante d’istituto al Pigafetta più di dieci anni fa, ho subito pensato di gettarla via: era infatti un regalo dell’assessore Donazzan. Per fortuna non l’ho fatto. Nonostante loro si siano presi anche il Leone, il mio segno zodiacale, ci tengo ancora. È la mia bandiera, proprio come “sta lingua che so ma che no parlo”; io ne faccio tesoro e memoria, come mi insegna Bandini:

Sta lingua la xe quela


che doparava me nona stanote

vardandome da dentro la soàsa.

La boca stava sarà, le parole
mi le sentiva ciare.

Me nona


la ga imparà sta lingua da le anguane

che vien zo da le grote

co sona mesanote
caminando rasente le masiere:
e da le róse
dove le lava fódare e nissói
se sente ciof e ciof sora le piere
e te riva un ferume de parole
supià dal vento
che zola par le altane.

Me nona


se ga levà na note co le anguane

par vegnere in sità.

Par paura dei spiriti che va
de sbrindolon tel scuro
la diseva pai trosi la corona.
La xe rivà de matina bonora:
subito dopo un brolo de pomari
ghe iera case e case da ogni banda.

La domandava el nome de na strada,


scoltando na sirena 

la xe rivà in filanda.

«Senti sta tosa come che la parla»,
i pensava vardandola tei oci
i botegari e i coci,
«la pare un stelarin che vien dai orti»…

Sta lingua


la so ma no la parlo,

la xe lingua de morti.



Da Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994